1979, Inghilterra. Due agenti di turno in una caserma della periferia di Londra, nella notte che porterà alla vittoria di Margaret Thatcher, scommettono su quale sarà il partito vincitore. Nel Regno Unito sono in vigore le leggi S.U.S. (Suspect Under Suspicion), in italiano “sospetti da sospettare”, che consentono legalmente alla polizia di fermare e perquisire chiunque, solo sulla base di un sospetto. Viene prelevato un uomo di colore. Gli agenti lo fanno infuriare, convinti che possa essere carne fresca per il governo entrante, entusiasta all’idea di mostrare i muscoli attraverso legge e ordine.
Sospetti (S.U.S) di Barrie Keeffe è in scena al Teatro Filodrammatici di Milano dal 2 al 14 novembre e al Teatro della Cooperativa (sempre nel capoluogo lombardo) dal 30 novembre al 5 dicembre. Tradotto e diretto da Bruno Fornasari, lo spettacolo vede protagonisti Tommaso Amadio, Emanuele Arrigazzi e Umberto Terruso.
La parola a Tommaso Amadio
Tu nello spettacolo interpreti l’uomo di colore sotto accusa che diventa un capro espiatorio. Parlaci un po’ di lui.
Quando si costruisce un personaggio, si cerca sempre di “arricchirlo” con i conflitti che vive. Leòn è un uomo che si sente inglese e lo è a tutti gli effetti, che vive la condizione di essere in un Paese che sente come la sua patria, da cui però allo stesso tempo viene rifiutato per i comportamenti pregiudiziali della polizia e non solo. L’aspetto più affascinante del testo è che racconta di un Leòn assolutamente battagliero. Non è la storia di una vittima rispetto a due carnefici, ma di qualcuno che lotta per le proprie posizioni anche di fronte al paradosso e alla deriva che a un certo punto caratterizzano l’interrogatorio. Un interrogatorio che si muove su basi più che comprensibili, perché sappiamo fin dall’inizio dello spettacolo che è morta una persona. Quindi lui è assolutamente sospettabile.
Gli indizi potenziali per inchiodarlo ci sono tutti. Il problema è che il punto di partenza è una posizione d’accusa e di condanna aprioristica, non un’indagine che dovrebbe certificare i fatti. E’ un dato molto affascinante, perché è un comportamento sempre più dilagante sui social. Non è uno scambio dialettico, ma siamo di fronte a qualcuno che sulla base di indizi – spesso sospetti – definisce l’altro colpevole di qualcosa, non avendo però tutti gli elementi necessari per poterlo fare.
Lo spettacolo è tratto da una storia vera o solo dalla fantasia dell’autore Barrie Keeffe e dalla sua penna?
E’ una storia assolutamente vera. Ho incontrato Barrie Keeffe e mi ha raccontato un aneddoto: quando faceva il giornalista, vide entrare in redazione un uomo che definì quasi un clochard. Dopo avergli raccontato il suo vissuto, lo implorò di non permettere che quella storia finisse nel dimenticatoio. E’ qualcosa di più di un fatto di cronaca: è un passaggio di consegna emotiva, di memoria.
Anche in questo caso il potere si trasforma in abuso?
La situazione è particolarmente emblematica del modo in cui il potere – nel momento in cui è viziato da un processo pregiudiziale – possa trasformarsi in abuso, proprio perché non verifica i fatti, ma cerca quello che poi si rivela un capro espiatorio.
Sarai sicuramente al corrente del caso di George Floyd, l’uomo di colore morto a Minneapolis il 25 maggio 2020 in seguito al soffocamento dovuto al ginocchio di un agente premuto sul suo collo per quasi un minuto. Le immagini di Floyd che con un filo di voce diceva “I can’t breathe” hanno fatto il giro del mondo. Questa storia è stata fonte d’ispirazione per voi in qualche modo e che cosa pensi del movimento “Black lives matter” – secondo gli esperti di crowd-counting il più grande nella storia degli Stati Uniti – nato molto prima dei fatti di Minneapolis, ma che dopo quel giorno è diventato oggetto dell’attenzione planetaria dai parte dei media?
Dopo la ripresa seguita al primo lockdown della primavera 2020, noi volevamo dedicare lo spettacolo proprio a George Floyd. Credo che – come ogni movimento – nasca da un sentire emotivo comune molto forte. L’aspetto importante è che nel momento in cui si perde la spinta strettamente emotiva, diventa una marcia consapevole e costante, alla ricerca di un equilibrio sociale, instabile per sua natura. Un equilibrio che ogni volta deve trovare una nuova definizione.
Il caso di George Floyd per noi non è stato fonte d’ispirazione, perché Bruno Fornasari ed io abbiamo presentato questo testo nel 2011 e speravamo di non doverlo più ripresentare, data la storia che raccontava. Poi, provando delle sensazioni forti causate dalla direzione che stava prendendo l’orientamento della società prima del caso Floyd, avevamo l’impressione che questa storia potesse ancora essere un monito, non tanto per il presente, quanto per il futuro. Le domande che dobbiamo ancora farci sono: quanto sono integrate queste persone? Quanti e quali strumenti hanno dato loro per integrarsi? Quanto la società crea presupposti perché questo avvenga?
- Intervista di Andrea Simone
- Foto di Laila Pozzo
- Si ringrazia Antonietta Magli per la collaborazione
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