Cronache del bambino anatra è uno spettacolo sulla dislessia, prodotto nel 2016 da MALTE e dal Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone su progetto di Maria Ariis e Carla Manzon, allora protagoniste dello spettacolo diretto da Gigi Dall’Aglio. Il testo, scritto da Sonia Antinori, è stato sviluppato grazie a residenze, fra cui quelle presso Fondazione Emilia Romagna Teatro, e ha ottenuto il patrocinio dell’Associazione Italiana Dislessia, che ne ha vigilato il rigore scientifico. E’ stato salutato dallo scrittore dislessico premio Pulitzer Philip Schultz come “la prima opera teatrale sull’argomento”.
Cronache del bambino anatra è in scena al Teatro Menotti Filippo Perego di Milano dall’8 al 10 dicembre. Ne sono protagonisti Maria Ariis e Massimiliano Speziani.
Parla Sonia Antinori
Perché il tema della dislessia è stato trattato così poco in teatro?
Il tema della dislessia arriva in teatro quasi in contemporanea al nostro lavoro attraverso la testimonianza di un attore dislessico. Per il resto, io credo che questo argomento sia in generale molto poco diffuso, se non quando tocca personalmente una famiglia, un contesto e una scuola. E’ ancora difficile trovare persone che abbiano un discernimento sul significato della parola usata comunemente – come tutti sappiamo – in maniera molto generica e generalista per dire che c’è una forma di intoppo. Questo è molto interessante. Quando infatti ci si avvicina a parlare e a incontrare persone come abbiamo fatto noi nella nostra ricerca sul campo, ci si rende conto che la differenza diventa una sorta di caratteristica. Questa ci spinge a fare delle scoperte, che se fossimo in uno statuto di normalità, non potremmo mai fare.
Credo che portarla a teatro sia stato il merito della sensibilità delle due attrici, Maria Ariis e Carla Manzon. Loro hanno fatto partire il progetto e si sono rese conto che c’era un vuoto da questo punto di vista. Hanno pensato che fosse necessario lavorare in questo senso. Quando abbiamo incontrato Philip Schultz, premio Pulitzer, in un’occasione organizzata da S.O.S. Dislessia, ci ha salutato con molta simpatia e apertura, dicendo che non esistono testi teatrali sull’argomento. Quindi, evidentemente, ci sembra che non sia solo una carenza del panorama italiano.
Che tipo di rapporto c’è tra madre e figlio nello spettacolo?
Penso che sia abbastanza emblematico del rapporto d’amore. E’ un rapporto molto vero. Si tratta infatti una relazione di rabbia quando non ci si comprende, di grande gratitudine quando ci sono momenti di illuminazione e di ritrovamento. che a volte per fortuna nella vita accadono. E’ quindi un percorso in tutte le emozioni e le esperienze della vita di relazione. Direi che è importante ripensare al testo come a una cosa che racconta un rapporto. Quindi non è soltanto lo stato di disagio del soggetto che evidentemente si trova isolato perché incompreso. E’ anche il disagio reciproco di non vedere e di non riconoscere l’altro fino in fondo nella sua umanità e nella sua singolarità. Questa incapacità crea frustrazione e rabbia.
Abbiamo molto discusso se questo spettacolo dovesse finire con una nota leggera o più cupa e realistica, ma visto che la spinta era umana, fatta da testimoni e persone che ci avevano raccontato la loro fatica e la loro capacità catartica, abbiamo pensato che dovesse essere qualcosa che rispecchiava esattamente questo percorso.
Il compito di questo spettacolo è sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema che forse ancora oggi non è molto conosciuto?
Sicuramente, ma io credo che sia importante parlare anche delle differenze e quindi della necessità di sviluppare una cultura della tolleranza ma anche dell’ibridazione, dove le soluzioni, le caratteristiche e le differenze dell’altro servono a me per mettere in discussione – quindi per entrare in una dinamica di relativizzazione – quello che è il mio modo di stare al mondo, la mia visione, la mia percezione e il mio stato, facendomi ovviamente crescere, perché ogni volta che incontriamo qualcosa che in primis non ci torna, facciamo una crescita. Per spiegare cosa intendo, userò qualcosa che è legato alla mia esperienza di teatrante: Luca Ronconi diceva: “Comincio a fare le mie regie a partire da quella battuta che non capisco, che mi è ostica”.
E’ una cosa che mi torna in mente ogni volta che mi confronto con un testo e c’è qualcosa che sono tentata di tagliare. Perché si taglia? Perché non lo capisco. Usiamo questa metafora teatrale per capire che laddove nell’altro c’è qualcosa che non comprendo, ci sono un gradino, una possibilità di crescita e di salire di livello per me come essere umano. Il discorso, naturalmente, si fa quindi più ampio. Da lì si apre una porta per una proiezione e una prospettiva verso il futuro, perché altrimenti l’umanità non è in una posizione molto favorevole e positiva. Siamo in un momento in cui o riusciamo ad avere degli squarci e un orizzonte più ampio o abbiamo veramente frainteso il nostro tempo.
Lo spettacolo indaga anche sul rapporto che ogni essere umano ha con le proprie imperfezioni?
Certo. Nasce all’interno di un progetto che si chiamava “gli imperfetti”. Voleva proprio parlare del fatto che ognuno di noi è imperfetto, perché non corrisponde a quello statuto di normalità che in fin dei conti è una fantasia. Quindi ognuno di noi è imperfetto. Perché lo siamo? Perché siamo caduchi e la nostra vita finisce. Nel momento in cui questa ombra getta il suo peso su tutta la nostra storia di umani, noi non siamo perfetti. Dobbiamo fare pace con questo e quindi essere naturalmente consolati in tutte quelle che sono le nostre imperfezioni interiori, cognitive, fisiche e psichiche, perché tutto questo è una malformazione.
- Intervista di Andrea Simone
- Si ringraziano Linda Ansalone e Mariella Iannuzzi per la collaborazione
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