“L’IMPERATORE DELLA SCONFITTA”: FALLIMENTO E RINASCITA

E’ una prima nazionale quella che va in scena al Teatro Out Off di Milano fino al 27 maggio. L’imperatore della sconfitta di Jan Fabre è un testo che ha come tema portante il fallimento, visto però da un punto di vista positivo.  Qui infatti la sconfiitta diventa azione, atto rivoluzionario, momento di rivincita e possibilità di proseguire. Non è più un punto di arrivo, bensì di partenza. Se infatti non fossimo sconfitti, non avremmo la possibilità di sbagliare e di continuare a esistere nel mondo. Lo spettacolo è diretto da Sara Thaiz Bozano ed Elena Arvigo, che ne è anche protagonista con Marco Vergani.

Intervista a Elena Arvigo

“Perché la forza interiore e la consapevolezza dei propri limiti sono gli unici mezzi di cui dispone l’uomo per riscattarsi dalla propria misera condizione?”

Non so se siano gli unici, perché la fantasia è illimitata quindi trova sicuramente i propri mezzi. Però sicuramente la consapevolezza della mediocrità pone delle buone premesse per fare un lavoro autentico su se stessi. L’arte è la conseguenza di una riflessione profonda a volte involontaria. La riflessione sui propri limiti non riguarda soltanto la cultura. Ogni uomo ha la possibilità di confrontarsi con il limite. I confini sono fondamentali, anche perché una volta che li conosco, posso avvicinarmici, osservarli, oltrepassarli e tornare indietro. E’ quando manca la consapevolezza che si corrono dei rischi.

“E’ un tentativo di riscatto che trova nel fallimento la sua forma perfetta?”

Sicuramente trova in esso una forma di conoscenza. Il riscatto presuppone che ci sia sempre la tematica della vittoria e della sconfitta. Una battuta molto bella dello spettacolo dice: “Non si tratta di vincere o di perdere, si tratta di PERDERSI”. E’ molto importante, come lo è anche la traduzione. Non solo quella del testo, ma anche dei pensieri che vengono tradotti in parole. Questo presuppone già dei limiti. Un’emozione va tradotta in un’azione o in un pensiero che diventa discorso. La lingua di appartenenza del testo è il fiammingo, che è molto vicina al tedesco o all’inglese. Infatti, nel Regno Unito il titolo è “The emperor of loss”, ma in italiano “L’imperatore della perdita” suonava malissimo e comunque fuori contesto. 

“Nel 1995 Giuliana Manganelli,  la traduttrice di questo testo ha scritto che il teatro di Jan Fabre non rappresenta niente, semplicemente è”. Che cosa intendeva dire secondo lei?”

Per parlare del teatro di Fabre, bisogna spiegare chi è: Fabre non è un drammaturgo, è qualcosa di più. E’ un artista che si occupa di tante cose. E’ come se Picasso o Fontana avessero scritto un testo. Quindi la sua firma è molto forte: il testo è come le sue opere. Non si può prescindere dal Fabre artista a tutto tondo. Parlare di lui solo come drammaturgo non ha molto senso. Fabre scrive insieme ai suoi attori e ballerini, esprimendosi con un linguaggio scenico basato sulla ripetizione. Questo testo, per esempio, è stato scritto per un attore specifico. Noi stessi ci siamo confrontati con la sua dramturg per cambiare alcune cose come le filastrocche fiamminghe presenti nel testo che avevano la consuetudine di evocare suoni dell’infanzia, ma che tradotte letteralmente non avevano senso. Quindi si torna sempre alla questione della traduzione e dell’adattamento in italiano. 

“Siamo di fronte a uno spettacolo catartico fin dall’inizio?”

Assolutamente sì. Tutto il testo è  un’evocazione del titolo. Ci sono azioni continue che definiscono l’imperatore della sconfitta e punti centrali, come il cuore, rappresentato qui all’esterno del corpo. La domanda è quindi se esso sia fuori dal corpo perché è troppo grande per essere contenuto all’interno o se l’artista sia senza cuore. Sono riflessioni un po’ filosofiche, ma molto umane e forti. Per Fabre l’artista è una sorta di ponte della coscienza umana. Lui definisce i suoi performer “guerrieri della bellezza”. Nel suo teatro ci sono connotazioni molto potenti e antiche. 

Poi c’è il discorso del volo: il luogo del fallimento e della possibilità di ricominciare è per antonomasia il palcoscenico. L’imperatore della sconfitta per eccellenza è il clown, cioè l’attore che non può che fallire per iniziare nuovamente da capo.  Quindi sì, è uno spettacolo catartico fin dall’inizio.