E’ in scena al Teatro i di Milano fino al 26 febbraio Autodiffamazione, uno spettacolo scritto da Peter Handke. Ne ha curato la traduzione Werner Waas, che con Lea Barletti ha anche firmato la regia. I due sono protagonisti in scena.
Accuse e condanne
Un uomo e una donna si autoaccusano di comportamenti e azioni compiute nella propria vita, assecondando o infrangendo le regole della società. In un gioco di riconoscimenti, il confine tra pubblico e scena si sospende, per ritrovare un po’ di sé nella vita di due sconosciuti, nelle frasi e nei luoghi comuni della lingua presa in prestito: italiano o tedesco, l‘habitus linguistico cerca di tirar fuori l’essenza del non dicibile, per rivelare un continuo disorientamento, l’accettazione e la parallela ribellione al livellamento culturale e con loro, nello stesso tempo, il perpetuarsi del miracolo dell’empatia che sopravvive nonostante tutto.
La parola a Lea Barletti
Teatro.Online ha intervistato Lea Barletti, regista e protagonista dello spettacolo.
“Quanto è importante il contatto con il pubblico in questo spettacolo?”
“Il contatto con il pubblico in questo spettacolo è fondamentale. Infatti non si presta assolutamente a essere ripreso in video, perché il pubblico è anche illuminato leggermente in modo che noi possiamo vedere le persone con cui parliamo. Questo è un testo di parola, come lo ha definito il suo autore Peter Handke. I due che parlano sono due rappresentanti della società in mezzo ad una società composta anche dal pubblico. Quella che raccontiamo è una storia comune, la storia di tutti nel venire al mondo e alla parola”.
“Perchè nelle note di regia questo spettacolo è stato definito un antidoto contro la superficialità?”
“Perché nella scelta della messinscena noi abbiamo deciso di affidarci totalmente al testo, che è molto efficace dal punto di vista comunicativo, senza ‘fare del teatro’. Seguendo le indicazioni dell’autore, noi parliamo e comunichiamo realmente con il pubblico, cercando di avere un contatto reale, quindi non un contatto superficiale basato sulla spettacolarizzazione, ma sul dialogo, sulla comunicazione e sulla ricerca di un contatto empatico e di concezione di un dialogo e di una vicinanza”.
“E’ giusto definirlo anche un’educazione sentimentale alla parola?”
“Assolutamente sì. E’ un testo e uno spettacolo che parlano della lingua come habitus, come modo di rapportarsi con il mondo e le sue cose. Tutti noi nasciamo e impariamo a parlare. Imparando a parlare, impariamo ad avere un rapporto con le cose. Le cose diventano nostre nel momento in cui le sappiamo nominare, quando sappiamo dare un nome ai sentimenti, alle emozioni, ai rapporti, a tutto quello che ci circonda e che vive dentro e fuori di noi”.
“In questo spettacolo viene annullato il confine tra palco e platea, è così?”
“Sì, c’è un contatto molto semplice e diretto. Questo non significa che è uno spettacolo interattivo. Il pubblico non deve fare niente se non ascoltare e guardare. Però non c’è assolutamente quella che si definisce la quarta parete. Noi parliamo con il pubblico, lo guardiamo in faccia e ci facciamo guardare da lui. E’ un rapporto reciproco di ascolto e sguardo”.