Alessandro Benvenuti, “Panico ma rosa” e “Un comico fatto di sangue”

59 giorni di lockdown. 59 pagine di diario che raccontano l’isolamento obbligatorio di un attore e autore, che privato del suo habitat naturale, il palcoscenico, decide di uscire dalla sua proverbiale ritrosia e raccontarsi per la prima volta pubblicamente e con disarmante sincerità come persona. E poi un autore che con la propria compagna analizza con un linguaggio comico e modernissimo, e con una chirurgica spietatezza i rapporti tra i membri di una famiglia italiana. Di questa nostra Italia che ha perso la bussola del buon senso e naviga ormai a vista tra i flutti sempre più minacciosi del mare dell’incertezza.

Un momento dello spettacolo “Panico ma rosa” (immagini del canale Youtube “E-Go Times”

Alessandro Benvenuti è in scena con due spettacoli da lui scritti, diretti e interpretati al Teatro Menotti di Milano fino al 5 maggio: Panico ma rosa e Un comico fatto di sangue

La parola ad Alessandro Benvenuti

Che cosa le hanno insegnato quei 59 giorni di lockdown?

Sarebbe più giusto dire che cosa mi stanno ancora insegnando, perché sono stati una scoperta. Abbiamo vissuto tutti una realtà nuova che era una rivelazione giornaliera. Anche il fatto di trovarmi chiuso in casa per la prima volta per due mesi con i miei cari e con mia moglie non è una cosa molto naturale. Di solito, infatti, un artista di teatro va in tournée e gira. Passa quindi gran parte della propria vita lontano dalla famiglia. Per cui l’idea di formare un nucleo familiare e stare insieme tutte le ore del giorno è stata per me una grande e piacevolissima scoperta.

All’epoca si è vissuta una realtà cercando di decifrarla tutti i giorni. Finita quella, io e tanti altri stiamo cercando di capire veramente cos’è successo e quali ferite a livello psicologico, ma non solo, ci sono state arrecate. Ogni giorno la vita insegna qualcosa. Poi ci si riflette sopra e si metabolizzano le cose.

A quel punto tiriamo le somme e capiamo cos’è successo, cosa ci è rimasto di quell’esperienza, e quali sono gli insegnamenti che derivano. Io mi sono salvato da una possibile noia quotidiana da inattività scrivendo questo diario. E’ diventato un impegno giornaliero, ma l’ho fatto ritornando alle mie origini di persona e di ragazzo che ha sempre avuto bisogno di tenere un diario, come se fosse una premonizione per quello che poi sarebbe stato il mio lavoro d’autore.

Quando però uno scrive dei testi e passa alla professione, non sente più tanto il bisogno del diario. Mette infatti le cose che gli servono di più nei propri scritti professionali. Invece, in quel caso, non avendo nulla da scrivere. Sono ritornato a quella forma di colloquio intimo tra me e me scrivendo ogni giorno delle pagine di diario. Le persone che lo hanno letto e mi hanno seguito nella mia avventura letteraria e social, mi hanno convinto a scrivere Panico ma rosa.

Quei giorni sono stati anche un’occasione per rivedere il suo passato?

Certo. Nei miei diari non ho parlato solo di quello che pensavo giornalmente o delle impressioni legate al silenzio delle strade, ma anche della mia storia di ragazzo. Quindi l’ho messa anche nello spettacolo e devo dire che forse sono i momenti più divertenti: le mie esperienze infantili, il mio passato da chierichetto, il rapporto con la religione, con Dio e con le droghe. Uno riflette sulla propria vita, perché ha il tempo di pensare.

Ho sognato tantissimo, nel senso che mi sono ricordato moltissimi sogni, cosa che in genere nella vita di tutti i giorni non succede. Me ne ricordo uno ogni tanto quando vivo delle giornate o delle emozioni molto forti, per cui la psiche la sera elabora e restituisce il messaggio. Durante il lockdown, la quantità di sogni ricordati, memorizzati e riscritti è stata decisamente superiore alla media. Nel diario e nello spettacolo sono quindi finiti anche dei sogni e degli incubi che ho fatto.

Venendo a “Un comico fatto di sangue”, che cosa emerge analizzando i rapporti di questa famiglia italiana?

Si racconta un femminicidio multiplo, spiegato però dalla parte dell’assassino. Il gioco teatrale è quello di fare il tifo per una persona che fa tanto ridere e alla fine si scopre che abbiamo parteggiato per un omicida, per la persona sbagliata. Ovviamente è la deformazione di un sentimento. La storia è quella di un amore vero, bello e pulito, che a causa della presenza di un tenero cucciolo di cane devia verso delle forme maniacali che portano alla distruzione di un sentimento.

E’ un caso limite ma nel percorso della mia scrittura l’idea di cimentarmi con delle personalità un po’ disturbate a me piace molto perché sono personaggi ricchi di sfaccettature e tensioni, che anche nella recitazione ci danno la possibilità di fare giochi attoriali e recitativi che mi piacciono molto. Però, in realtà, è una storia che parla di famiglia, del rapporto tra moglie e marito, tra genitori e figli e tra umani e animali. E’ una cosa apparentemente normalissima. Penso che sia lo spettacolo più vicino all’umanità della vita che abbia mai fatto, ma che presenta una distorsione finale, un colpo di scena. A me piace molto sorprendere lo spettatore. Se mi viene l’idea giusta, la metto in atto molto volentieri.

Come può un fatto di sangue essere comico?

Non si sa se lo sia il fatto o se sia fatto di sangue il comico. Può darsi pure che in realtà lo spettacolo dica che io sono un comico fatto di sangue, nel senso che mi piace molto il sangue inteso come la natura, la realtà degli uomini, i fatti delle persone. Amo presentarmi con una sfrontata naturalezza e parlare quindi di cose che non vanno più tanto di moda. Sono magari legati a cose ancestrali e al DNA di una famiglia. Sono molto attratto dalla normalità che molto spesso cela delle mostruosità.

Credo che Un comico fatto di sangue sia più un accenno alla mia qualità di scrittore. Il comico fatto di sangue lo è perché ci fa ridere fino alla fine, salvo poi farci rendere conto che abbiamo riso della persona sbagliata. E’ quindi un gioco di parole come Panico ma rosa, perché quella paura di quello che sarebbe successo e di quanto sarebbe stata grave l’incognita che si è impossessata di tutti durante il lockdown ci ha fatto vedere le parti rosee. Secondo me è un gioco di parole che serve a descrivere qualcosa che sta nel mezzo, trasversale rispetto alle decisioni, ai pensieri e alle sicurezze.

  • Intervista di Andrea Simone
  • Si ringrazia Linda Ansalone per la collaborazione
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