RICCARDO MAGHERINI, “BLACK BOX”

Il Progetto TeatroInMatematica ideato da Maria Eugenia D’Aquino festeggia il ventennale con una prima assoluta. Black Box debutta al Pacta Salone di Milano il 20 gennaio dove sarà in scena fino a domenica 30.

Cluster, un data mining analyst, lavora per una importante società di analisi dati. Insieme a lui c’è Alice, l’intelligenza artificiale che gestisce l’ambiente di lavoro, gli fornisce i compiti da svolgere e controlla la sua performance.

La regia dello spettacolo è di Riccardo Magherini, protagonista in scena con Maria Eugenia D’Aquino e Lorena Nocera. La drammaturgia è firmata dal matematico Riccardo Mini. Lo spazio scenico è curato da Fulvio Michelazzi, con l’apporto degli oggetti di Ernesto Jannini, le musiche sono di Maurizio Pisati e il disegno luci di Manfredi Michelazzi.

La parola a Riccardo Magherini

Che cosa si intende per “machine learning” e “data profiling” nel vostro spettacolo?

Sono due termini tecnici della vita quotidiana riferiti al concetto di algoritmo, capace di imparare da solo e di approfondire le operazioni dell’essere umano, che accedendo a un cellulare, a una carta di credito o ad altri oggetti di uso comune, permette all’algoritmo di migliorare le proprie richieste di applicazione. Nel nostro caso impara e crea autonomamente un sistema. A un certo punto questo diventa talmente complesso che l’umano stesso non riesce a entrarci. Non è più capace di leggerne le funzioni e i passaggi matematici perché diventano molto complessi. Sono fuori controllo e autonomi. Sono machine learning perché imparano da se migliorandosi e diventando umani. Più somigliano a noi, meglio ci fanno stare. Per esempio gli hardware funzionano in questo modo proprio perché applicano il sistema dell’algoritmo.

Il data profiling viene usato dal machine learning: prende i profili necessari per creare il proprio flusso di informazione e costruire i primi mattoni. In seguito li crea da sé in relazione a quello che impara di volta in volta.

In che cosa è diverso rispetto agli altri il gioco di realtà virtuale in cui entrano Cluster e Alice?

C’è un rapporto simbiotico e umano cementato da moltissimi anni di lavoro svolto insieme. Sono come due colleghi prossimi alla pensione. Alice, la macchina, ha un nome femminile perché Cluster è un uomo. Si capisce subito il meccanismo psicologico. Al maschio piace che la macchina abbia un nome da donna: è più bello, armonico e accogliente. Nel nostro caso non c’è un pc o un robot qualsiasi, ma un intero ambiente che contiene una signora meravigliosa, gentile, affabile e materna che si chiama Alice. Non solo assomiglia sempre di più all’uomo ma anche ai suoi desideri. Lo rassicura e lo fa stare bene, perché lo consiglia e lo conduce nella direzione da lei preferita a seconda dell’algoritmo che utilizza.

Sorvegliare le persone con la realtà virtuale e l’intelligenza artificiale diventa un modo di capitalizzare per le grandi imprese?

Sicuramente. Parlare di privacy, libertà e indipendenza oggi è quasi un anacronismo. Se però le aziende usano questo sistema per guadagnare di più non c’è niente di male, perché ognuno deve cercare di migliorare se stesso. Il punto è che questo aspetto non è applicato solo a una questione economica e commerciale, ma anche sociale e politica. Non siamo controllati attentamente soltanto nelle nostre modalità d’acquisto, ma anche nel contesto delle votazioni politiche. Siamo teleguidati in determinate direzioni, senza pensare necessariamente a brogli elettorali.

Quindi la libertà delle persone è destinata a scomparire sempre di più dato l’impatto degli algoritmi che spia le nostre vite?

Temo che sia già scomparsa. Finché la libertà è all’interno di ambiti regolari, siamo liberi. Quando usciamo dall’insieme, non si può più parlare di libertà, ma entriamo automaticamente nel campo della disobbedienza, della rivoluzione e dell’anticonformismo.

  • Si ringrazia Giulia Colombo per la collaborazione
  • Foto di Emma Terenzio