C’era una volta Mario Nesi, nato nel popolare rione La Guglia di Livorno fra gli anni ’70 e gli anni ’80. Il Blocco 3 è l’edificio che lo vede crescere, all’ombra del suo cortile e di un’affollata e picaresca umanità. Sotto l’ala protettiva del padre, comunista d’acciaio, Mario sviluppa i primi germi di ribellione umoristica e autocoscienza.
Blocco 3 è uno spettacolo di Francesco Niccolini e Fabrizio Brandi che ne è anche protagonista al Teatro della Cooperativa di Milano dall’11 al 14 ottobre. La regia è di Roberto Aldorasi.
Quattro domande a Fabrizio Brandi
“Siamo di fronte a uno spaccato dell’Italia degli anni ’70 e ’80?”
“Sì, siamo in quel periodo in un quartiere popolare della Livorno operaia, dove c’è un bambino di 11 anni, Mario Nesi, che comincia ad avere i primi scontri con la vita e con il padre sulla politica, perché il padre è un comunista di ferro. Il mondo però sta cambiando, è crollato il muro di Berlino. Il bimbo cresce, ha i primi scontri in famiglia e anche con la vita.”
“Chi era esattamente Mario Nesi?”
“Questa storia è in parte autobiografica; Mario Nesi sono io stesso che mi agito all’interno, perché io sono cresciuto in uno di quei quartieri. Avevo il padre operaio, quindi una parte è veritiera. Io dico sempre che in “Blocco 3″ c’è un 60% di parte autobiografica e un 90% inventata. La somma non fa mai il 100%, ma va molto oltre.”
“Quale sono le angolazioni attraverso cui si sviluppa il gioco della memoria che ci porta indietro nel tempo?”
“Le angolazioni si sviluppano attraverso l’ottica di Mario, che ogni tanto torna indietro, perché la storia è una lettera aperta al padre. Di tanto in tanto lui ha dei flashback: va in avanti, va in indietro e racconta gli episodi che riguardano il proprio microcosmo. E’ una memoria che guarda a questo microcosmo, a questo blocco che è un cortile popolare di contenimento fatto costruire negli anni ’30 dal governo Mussolini. Da lì partono tutti i suoi ricordi, ma è il tentativo di raccontare attraverso un microcosmo l’Italia degli anni ’70 e ’80. Era l’Italia delle “porte aperte”: in alcuni quartieri la gente teneva le porte aperte e si entrava e si usciva dalla casa del vicino. Ci si scambiava le cose e non c’era tutta quella diffidenza che pian piano ha fatto sì che le porte si chiudessero.”
“Quanto è difficile per Mario il mestiere di crescere e vivere?”
“E’ abbastanza difficile, però lo aiutano una discreta ironia e autoironia che lo portano a superare le cose e a sdrammatizzarle. Infatti lo spettacolo ha una chiave da commedia all’italiana, dove si ride ma ci si commuove anche. C’è una parte amara, ma anche una ironica e questo si vede molto dallo sguardo di Mario. E’ il suo modo per sdrammatizzare e sopravvivere alla vita.”