Cesar Brie, “Boccascena”

Due uomini di teatro si incontrano, dopo tanto tempo, su una zattera che potrebbe essere una zattera nell’altrove. Un viaggio tra ironia e disincanto che li porta a fare i conti con se stessi attraverso opere, scuole, maestri, colleghi, amori, colpe e malattie. Memorie ferite. Fine teatro mai.

Boccascena ovvero le conseguenze dell’amor teatrale è al TeatroLaCucina di Milano dal 4 al 16 ottobre. Lo spettacolo è stato scritto da Antonio Attisani e Cesar Brie, che ha anche firmato la regia ed è protagonista in scena con il coautore e l’attrice Caterina Benevoli.

A tu per tu con Cesar Brie

Che cosa simboleggia la zattera su cui potrebbe essere ambientato lo spettacolo?

E’ il luogo di due naufraghi del teatro, non del mare. Antonio Attisani ed io ci siamo incontrati nuovamente dopo moltissimi anni che non ci sentivamo. Negli anni Settanta eravamo molto amici. Pur non essendoci quasi mai cercati da allora, abbiamo scoperto da vecchi di aver condiviso un tragitto e durante la pandemia abbiamo scritto il testo stando ognuno a casa propria e scambiandoci le rispettive idee in forma di botta e risposta.

Un giovane attore di cent’anni di nome Gatto incontra un vecchio professore di 120. I due parlano, discutono, si scannano su tutti i temi importanti per loro, sia personali che privati: le ferite, i dolori, la scuola, la vocazione, fino ad arrivare a uno sconsolato matrimonio. Forse i due andranno nell’aldilà o magari ci sono già… C’è una figura: il servo di scena, una specie di regista muto che li conduce. Loro non lo vedono mai ma è lui a fargli attraversare i temi che devono trattare. Questa è la zattera dello spettacolo. E’ un gioco al massacro.

Perché i protagonisti sono costretti a fare i conti con se stessi?

Perché a una certa età, se non fai i conti con te stesso, con chi li fai? (ride) Li facciamo nell’unico modo che crediamo possibile: massacrandoci e non salvandoci. Il problema è riuscire a essere crudeli con se stessi, perché è molto facile esserlo con gli altri, portare ideologie sulla scena e fare teatro politico. Mettersi in discussione è più complicato ed è quello che io ho cercato di fare.

Quanto è metaforico o simbolistico questo viaggio e quanto invece è reale?

Entrambe le cose. E’ brutto dirlo ma è importante in senso artistico: è un testamento che ci stiamo lasciando alle spalle e che proprio in quanto tale è teatralmente pieno di senso dell’umorismo e acido. Significa fare i conti con noi stessi. E’ reale perché Antonio ha 74 anni e io 68. La maschera che si usa per celare la vecchiaia è la malattia e noi ne parliamo chiedendoci se sia l’alibi dietro al quale ci nascondiamo per cominciare a fare fagotto.

Noi pensiamo che lo spettacolo parli ai giovani. Questa è per me la cosa più importante. Infatti c’è una grande diatriba sull’apprendistato, la scuola e la vocazione. I giovani devono credere che il teatro non sia un mestiere ma una vocazione. Lo spettacolo è dedicato a loro e a tutti, anche a noi stessi.

Che cosa significa il titolo “Boccascena?”

E’ una parola che piaceva molto ad Antonio Attisani. Inizialmente io avevo scelto il termine “sipario”. “Boccascena”, invece, dà proprio l’idea della bocca della scena: è qualcosa che ci mangia come farebbe una balena, visto che parliamo di naufragio, e allo stesso tempo ci fa scomparire. Siamo in un luogo ma contemporaneamente siamo già altrove. Ha il significato di una soglia: quella del teatro, delle metafore e dell’aldilà in cui probabilmente sono già i due personaggi.

Con Antonio Attisani avete scritto il testo a quattro mani nel 2020, durante il lockdown della prima ondata di Covid. Pensa che se questo lavoro avesse visto la luce in un periodo di normalità, sarebbe stato diverso?

Totalmente. Penso che se non ci fosse stata la pandemia, non sarebbe nemmeno esistito, perché noi non ci eravamo mai posti il problema di lavorare insieme. Abbiamo ripreso un’amicizia molto “sgarbata” e secca, ma allo stesso tempo profonda. Antonio è una persona con cui parlare è sempre un piacere, perché non dice mai una banalità. Affronta sempre gli argomenti, ragiona, ma allo stesso tempo, insieme a lui ci si diverte. E’ uno che sa vivere la vita.

Durante la pandemia, io avevo paura che lui fosse troppo solo e che soffrisse di malattie pregresse. Ho cominciato a scrivere per stimolarlo e fargli sentire che gli ero vicino. Ne è nata quindi una sorta di introspezione sul teatro, sulla sua arte, su cosa siamo noi, sul significato dell’essere artisti, sui drammi e sui problemi che abbiamo affrontato sempre in prima persona, perché per dire “noi” bisogna prima imparare a dire “io”. Nell’io bisogna comporre il “noi” presente in tutti gli altri.

  • Intervista di Andrea Simone
  • Foto in evidenza di Paolo Porto
  • Clicca QUI per iscriverti al canale Youtube di Teatro.Online e vedere le nostre interviste video