Come si fa a uccidere un padre che è già morto? Che di vendicarlo proprio non si ha voglia… Bisogna davvero “ereditarne” il nome e seguirne i passi sulla terra? O meglio risolversi a riposare sotto quella terra e seguire i propri passi, rischiando pure di sparire? Da questa e da altre domande ancora, l’interprete di Amleto parte per indagare i propri confini. E così, in questo non-luogo, misterioso e di passaggio, sono destinati a sprofondare alcuni personaggi dell’Amleto, ognuno portatore di un tema e di una rinnovata visione sulla vita e sulla morte, ognuno interpretato dallo stesso uomo, Solo.
Io sono.solo.Amleto è in scena il 26 e il 27 ottobre al Teatro Fontana di Milano. Lo spettacolo vede in scena Marco Cacciola, che ha anche firmato la regia, la drammaturgia e i testi originali con Marco Di Stefano, Lorenzo Calza e Letizia Russo.
Parla Marco Cacciola
Quali sono le riflessioni di fronte alle quali Amleto mette se stesso e il pubblico?
Mi piace pensare che esistano tanti Amleto per tante nostre epoche e che ce ne sia sempre uno diverso. Non è un caso che si sia provato a mettere in scena Amleto in tanti modi e in tante epoche differenti, spero non come esercizio di stile e come “palestra”, ma perché è davvero una necessità. C’era chi diceva che Amleto ha sempre un libro in mano: probabilmente il libro cambia a seconda delle epoche e dei Paesi in cui ci si trova. Forse in questo momento Amleto ha in mano Amleto, cioè il testo di Shakespeare.
Questo testo è irrappresentabile perché contiene troppi temi. Allora forse bisogna concentrarsi sul linguaggio e provare – riscrivendolo – ad affondare dei temi, cercando di farli emergere nel presente e di renderli lingua viva oggi con le persone con le quali si instaura questo dialogo. Ovviamente, per quanto riguarda Amleto, il tema rimane sempre il dubbio, non è mai la certezza. Amleto non ne ha. Ha molti dubbi e molte domande, però va dritto come un treno e al massimo si schianta. Prova sempre.
Quanto vanno di pari passo giustizia e vendetta in questo spettacolo?
Questo è un aspetto interessante. Chissà che cosa ha pensato Shakespeare nel 1600. Letizia Russo, una delle nostre autrici, nel testo fa dire ad Amleto: “La vendetta: questo è l’unico nome vero della giustizia”. E’ chiaro: nel 1600 c’era una domanda. Oggi abbondano da una parte il giustizialismo e dall’altra l’opinionismo di ognuno che dice ciò che pensa. Siamo un paese con 15.000 leggi, in Francia ce ne sono 4.000. La giustizia non riesce mai a esplicitarsi né a esplicarsi, perché c’è sempre un’altra giustizia che si contrappone a quella precedente.
Noi però non stiamo affrontando un tema d’ordine pubblico, ma un tema alto che riguarda la storia dell’uomo. Quindi il punto nevralgico del testo è questo: la richiesta di un padre – o meglio dello spettro di un padre – di vendicarlo. “Ammazza una persona!”. Non è un caso che, in quattro atti, quel grande uomo che è Amleto non ce la faccia. Idealmente sarebbe molto semplice. Invece sono proprio i dubbi e la crescita a tormentarlo, perché il quinto atto sembra scritto dieci anni dopo i primi quattro. Questo personaggio così scomodo e ingombrante che è Amleto ha un altro linguaggio e un’altra maturità rispetto a tutti gli altri.
Quindi, nel nostro testo, noi abbiamo provato in qualche modo a ritardare questo atto di vendetta, non solo stigmatizzando la richiesta. Amleto a un certo punto si chiede: “Papà, perché mi hai chiesto di vendicarti? Forse la soluzione è proprio quella di non farlo e neanche quella di cercare di ucciderti.” Amleto pensa che i morti, stando nella loro terra, siano humus per lui, per la nostra crescita, per segnare il nostro percorso e il nostro sentiero.
Perché siamo noi a essere Amleto, “sopraffatti dal Pensiero e impossibilitati all’Azione”?
Questa è una frase di un bellissimo saggio su Shakespeare. Nel momento in cui l’ho letta ho pensato che si trattasse proprio della tragedia dell’inazione. Amleto, nonostante dica di dover essere pronto a tutto, è proprio l’inazione fatto persona: è quello che pensa, valuta, soppesa e poi non agisce. Oggigiorno affondiamo le radici di questo dubbio in un mondo in cui abbonda la retorica del fare, come se fare fosse più importante che pensare. Forse, però, se prima di fare si pensasse, sarebbe meglio.
Dire le grandi verità è sempre orrendo, però noi viviamo in una società che si perde nelle contrapposizioni. Più che affondare un pensiero noi facciamo paragoni. Se succede qualcosa, piuttosto che approfondire, diciamo: “E lui?” Quindi, perdendoci in questo paragone con gli altri che sono più cattivi o meno peggio di noi, non ci prendiamo le nostre responsabilità.
Nel vostro spettacolo ogni personaggio è portatore di un tema. Ne vogliamo citare alcuni?
Esistono cose dichiarate e altre un po’ più segrete. Il mistero è un po’ la benzina che serve agli attori per andare avanti e per raccontare cose non proprio esplicite. E’ come se la nostra scatola bianca fosse la testa dell’interprete, perché Amleto c’è, ce ne sono tanti, probabilmente anche in mezzo al pubblico. Nei particolari di questa testa, Polonio è un occhio che guarda in maniera viscida, che spia e che controlla; Ofelia è afasica: non parla, perché nessuno l’ascolta, nemmeno Amleto. Quindi, per evitare di dire cose sbagliate, è meglio cercare di parlare con questa figura femminile non ascoltata, che manifesta il suo bisogno d’amore.
E’ uno dei pochi momenti in cui il teatro fa capolino e l’interprete di Amleto si domanda forse cosa significhi per lui l’amore, mentre all’inizio il padre è il fuoco che accende tutta la tragedia. E’ però colui che ha visto tutto – come fanno probabilmente i morti – e che poi lancia la sfida a questo interprete. Claudio è in assoluto la presa in giro del potere. Non è solo un buffone, è anche pericoloso come può essere spesso il potere. Alla fine però è l’interprete di Amleto che prova a essere sempre in collegamento con il pubblico. Questa per me è una cosa importante: io farò delle domande dirette agli spettatori, perché faccio un gioco. Orazio dovrebbe essere il testimone, ma qui Orazio non c’è, perché Orazio siamo tutti noi, è il pubblico il testimone di questa tragedia. Il dialogo rimane il centro del nostro lavoro, il fuoco sacro.
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- Intervista video di Andrea Simone
- Foto in evidenza di Lorenzo Pari
- Si ringrazia Martina Parenti per la collaborazione