Un conflitto tra padre e figlio che continua anche dopo la morte. Non è possibile uccidere un padre che non c’è più e allo stesso tempo Amleto non ha voglia di vendicarlo. Forse allora è meglio mettersi l’anima in pace e continuare con la propria vita? E’ questo l’interrogativo al centro di Io Sono. Solo.Amleto, in scena al Teatro Fontana di Milano dal 27 al 29 settembre. Ogni personaggio porta una visione nuova e personale della vita e della morte e ognuno di loro è interpretato dallo stesso uomo: Solo.
Lo spettacolo nasce su un progetto di Marco Cacciola, che ne è anche l’unico interprete e che ha scritto il testo insieme al regista Marco Di Stefano, a Lorenzo Calza, Michelangelo Dalisi e Letizia Russo.
Quattro domande a Marco Cacciola
“Siamo di fronte a uno spettacolo altamente filosofico, mi par di capire…”
“Siamo di fronte a una riflessione sulla creazione artistica, sulla capacità genitoriale e su quella di essere un attore/autore. Quindi per me è una riflessione sull’arte che prende come spunto le opere massime e che parte da una domanda: come si fa a uccidere un padre quando è già morto?”
“Con questa rilettura di Amleto analizzate anche i dubbi del nostro tempo?”
“Io ci provo. L’idea è che Amleto sia un interprete – in tutti i sensi della parola – di quello che è il suo tempo, quindi che lo sia in termini artistici, sociali e politici. Il teatro è politico perché parla a persone che vivono oggi.”
“E’una riflessione che parte da una crisi d’identità e da una solitudine interiore?”
“Quando nacque sì. Io scrissi il titolo con le parole “Io sono.solo.Amleto”, quindi c’era una ricerca sull’identità (Io sono), sulla solitudine (solo) e sull’arte e la creazione (Amleto). Nacque perché credo che ogni attore debba sempre rimettersi in discussione. In questi anni ho cominciato ad affrontare in maniera diversa il mio lavoro, non solo come interprete, ma anche prendendomi il rischio e il lusso di una ricerca sul senso di fare teatro oggi, di che cosa vuol dire essere attore o in generale un artista che sta sul palco: una persona viva tra altre persone vive.”
“E’ anche molto forte il tema della giustizia che in questo caso va di pari passo con la vendetta, giusto?”
“Io ho chiesto a parecchi drammaturghi di scrivere seguendo delle linee dettate dai miei desideri, per quanto riguarda sia i personaggi sia i temi. Il primo testo che ha scritto Letizia Russo si conclude con una richiesta di vendetta. Il padre, in termini drammaturgici, dà il compito dell’opera allo spettro: chiede al figlio di vendicarlo. E’ il suo obiettivo ed è lo stesso anche per l’attore, come se un regista o un drammaturgo avesse detto quello che è il suo compito. Però cosa succede se l’interprete non ha voglia di vendicarlo, perché invece di seguire le orme tracciate dal padre e dai maestri vuole cercare la propria strada? Il padre chiede di essere vendicato perché la vendetta è l’unico vero nome della giustizia, quindi è un padre vendicatore, re, soldato e padrone. Invece il personaggio, Amleto, che nel nostro caso diventa il simbolo dell’impossibilità di agire perché viene frenato, è allo stesso tempo portato avanti da questa richiesta. Quindi la domanda che lui fa al padre è: ‘Ti voglio davvero vendicare?’. Amleto pensa che sia meglio lasciare sottoterra il padre e seguire la propria strada in questo mondo.”
(intervista e riprese video di Andrea Simone)