Una strampalata compagnia di attori mette in scena uno spettacolo dove niente va come dovrebbe andare: tra una scenografia che crolla e un cast che tenta goffamente di porre rimedio a una situazione che precipita da un momento all’altro, assistiamo alla tragicomica storia di un gruppo di attori che non si ricorda le battute, di una scenografia che crolla, di porte che non si aprono e di oggetti che scompaiono e ricompaiono dove non dovrebbero.
Che disastro di commedia è in scena al Teatro Leonardo di Milano dal 17 al 27 gennaio. Nato da un progetto di Gianluca Ramazzotti, scritto da Henry Lewis, Jonathan Sayer ed Henry Shields e diretto da Mark Bell, vede protagonisti Alessandro Marverti, Yaser Mohamed, Marco Zordan, Luca Basile, Viviana Colais, Stefania Autuori, Valerio Di Benedetto e Gabriele Pignotta.
Intervista a Marco Zordan
“E’ un umorismo tipicamente britannico quello di questa commedia?”
“Sì, perché si basa sulla tradizione britannica di gag che partono da Stanlio e Ollio e arrivano alla slapstick comedy, che cominciano cent’anni fa e giungono fino a oggi. Parte anche dalla famosa scena degli Artigiani nel Sogno di una notte di mezz’estate, dove viene allestito uno spettacolo classico. Da lì scaturisce una serie di scene divertenti, perché lo spettacolo viene fatto male e si rifà a quel tipo di tradizione. E’ un umorismo molto basato sulle situazioni e sull’imbarazzo dei clown che si presentano sul palco completamente impreparati a mettere in scena un giallo. La comicità nasce dalla loro incapacità, anche se si basa su grandi scenografie e scene di movimento. Si fonda però anche sul pensiero dell’attore che cerca di salvare il salvabile di fronte al pubblico.”
“Gli imprevisti sembrano casuali, ma in realtà sono calcolati ad arte, giusto?”
“Sì. Abbiamo fatto diverse prove e un training con il regista a Londra. E’ tutto calcolato al millesimo, anche perché logicamente si rischia che tutto vada male se non si fanno dei calcoli precisi. Tutto avviene a una velocità tale che se lo spettacolo non fosse preparato nei minimi dettagli, si rischierebbe un insuccesso.”
“Perché è uno spettacolo estremamente faticoso per gli attori che lo interpretano?”
“Perché è uno spettacolo fisico e il pubblico ride delle nostre disgrazie. Più le nostre sciagure vengono portate all’ennesima potenza più l’effetto comico aumenta. In scena ci siamo noi che scaliamo la scenografia per arrivare a un altro piano o veniamo catapultati fuori da un ascensore oppure dobbiamo forzatamente spostare mobili perché un piano cade. Il pubblico ci vede nelle condizioni più estreme e per fare tutto questo c’è bisogno logicamente di muscoli e fatica. Il pubblico si diverte a vedere il nostro sudore, perché è un meccanismo comico classico.”
“I tempi comici sono diversi qui rispetto a quelli della commedia classica?”
“Sì, perché ci sono due tipi di effetto comico: uno in cui bisogna essere molto veloci perché tutto quello che succede – in teoria – non è calcolato. E’ una compagnia che tenta di fare un giallo e quindi tutte le cose che succedono devono essere sottolineate, perché gli attori devono andare avanti: lo spirito dello spettacolo è questo. L’altro ha bisogno di molto tempo, perché il pubblico deve riuscire a leggere negli occhi del cast il completo disagio nel fare in scena cose che sarebbe complicatissimo risolvere. In definitiva, per chi la fa, questa non è una commedia, ma è la tragedia di una compagnia che non riesce a fare uno spettacolo. Non ci sono tempi comici da rispettare, c’è solo la verità di quello che succede, che è comica per lo spettatore ma drammatica per l’attore che la sta vivendo.”
- Intervista di Andrea Simone
- Si ringrazia Alessandra Paoli per la gentile collaborazione