La legge della giungla
E’ una commedia spietata e politicamente scorretta quella che va in scena al Teatro Franco Parenti di Milano dal 19 aprile al 7 maggio. Si tratta di Bull di Mike Bartlett, giovane scrittore tra i più interessanti e lucidi del Regno Unito. Lo spettacolo delinea con angosciante lucidità le derive di un mondo lavorativo sempre più selettivo. A farne le spese sono i più deboli: non necessariamente i meno competenti, spesso i più umani, non abbastanza vaccinati contro la cattiveria e l’imperante cinismo.
La regia di Bull è di Fabio Cherstich e ne sono protagonisti Linda Gennari, Pietro Micci, Andrea Narsi e Alessandro Quattro.
Intervista a Fabio Cherstich
“In che modo la platea degli spettatori si trasforma in un ring?”
Da un punto di vista scenografico o di impianto scenico, come amo definirlo, il palcoscenico sta al centro. In questo testo è infatt importante che il pubblico assista a una lotta nella condizione stereotipata della boxe e degli scontri clandestini fra cani. Il fatto di mettere la platea tutt’attorno non è una citazione del teatro elisabettiano. E’ proprio il far vivere allo spettatore in prrimis una situazione in cui è sovraesposto. Avere il pubblico a 360 gradi vuol dire che io vedo chi ho davanti. Quindi per me lo spettacolo non è solo quello degli attori in scena, ma è anche il pubblico che si vede riflesso nelle azioni di chi ha davanti. Questo è molto importante per me, perché è uno spettacolo in cui gli spettatori reagiscono singolarmente in maniera molto diversa.
C’è chi si arrabbia e chi ride. Credo che lo studio delle reazioni degli spettatori che stanno di fronte o a fianco sovraesponga tutti, dagli attori agli spettatori. Questo è il motivo per cui è stato fatto con una platea a ring, perché questo dà anche la possibilità di far vedere tutti e tutto, e di vedere se stessi riflessi negli spettatori che si hanno davanti.
“E’ uno spettacolo che prevede un gioco al massacro?”
Assolutamente sì. Lo spettacolo è un gioco al massacro in cui due colleghi decidono di accanirsi contro il più debole per eliminarlo. Il capo, che dovrebbe arrivare come un deus ex machina o come una figura capace di far svoltare quello che il pubblico vede all’inizio, convenzionalmente fa virare la trama. In questo testo tutto quello che uno si aspetta dall’inizio si verifica, ma in maniera sempre peggiore rispetto a quello che si poteva pensare. Uno dice: “Non è possibile”. Invece in questo testo il “Non è possibile che siano così cattivi” va oltre. Quindi tutto quello che non è possibile diventa un: “Oh mio Dio, è possibile!” Questa è la chiave per me.
“Cos’è che colpisce la sensibilità degli spettatori?”
Credo che sia il fatto che questo è un testo politicamente scorretto. Quindi non siamo abituati a sentire certe cose. Sentire il discorso finale che fa Isabel, che sposa un darwinismo sociale fondato sull’eliminazione del più debole, sentirlo in bocca a una donna in tailleur in un ufficio e non a Hitler o a un militare, fa un certo effetto. Perché è un testo che parla della radice dell’odio e di come l’odio si insinua anche nei microscosmi. Secondo me “Bull” racconta attraverso un microcosmo un macrocosmo della società contemporanea. E’ fondato sulla legge del “vinca il più forte”. Faccio quest’esempio perché è importante per me. Un tempo dire che qualcuno era una iena era un insulto. Oggi nel mondo del lavoro è un complimento. Dire: “Lei è bravissima, è una iena” è terribile.
“Potrebbe succedere che il pubblico si assuefaccia alla cattiveria?”
Sì, ma credo che il pubblico passi diversi stadi all’interno dello spettacolo. C’è un momento in cui diventa anche lui carnefice perchè ride, perché comunque questi due stronzi sono divertenti, perché il male è divertente. E’ più divertente il male del bene. E’ più sexy il male del bene, ma il male è sempre omicida. Il bene mai.