Fino al 30 ottobre Corrado d’Elia riporta in scena al Teatro Litta il suo spettacolo cult: “Cirano di Bergerac”. Una pièce sulla cresta dell’onda nei teatri dal 1996. Sono i numeri a parlare: venti stagioni di successi in tutt’Italia, 200.000 spettatori, migliaia di fan e centinaia di articoli sui giornali.
Dopo “Amleto”, “Otello”, “La Locandiera” e “Caligola”, D’Elia torna dunque sul palcoscenico del teatro di Corso Magenta, dove è protagonista della pièce nel ruolo del celebre spadaccino nato dalla penna di Edmond Rostand. Cirano è un eroe della tradizione teatrale, che paga con la morte il suo amore per Rossana, l’anticonformismo, la ribellione alle convenzioni sociali e al potere.
Insieme all’attore e regista si muovono sulla scena Michel Altieri, Marco Brambilla, Alessandro Castellucci, Giovanni Carretti, Francesco Cordella, Claudia Negrin, Stefano Pirovano, Marco Rodio, Giovanna Rossi, Stefano Rovelli e Chiara Salvucci.
Teatro.Online ha intervistato Corrado d’Elia e gli ha chiesto se la forza di Cirano sia costituita dalla sua grande coerenza e fedeltà ai suoi ideali.
“Sta tutta in un mix legato alla coerenza e a valori che ancora oggi riconosciamo come positivi. E’ una persona innamorata e sincera, ma è un personaggio teatrale. Non dobbiamo fare l’errore di riportarlo a oggi. Non perché sia un personaggio datato, visto che i suoi valori sono validi ancora oggi, ma perché i protagonisti del teatro sono personaggi di fantasia. Sbagliamo se cerchiamo di identificare un ruolo in qualcuno che conosciamo. Però la gente a teatro si affeziona e parteggia per lui immediatamente”.
“Qual è la differenza di impatto sul pubblico che un Cirano di Bergerac tradotto in prosa può avere rispetto alla versione in versi alessandrini?”
“Il problema è sempre la lingua, quello letterale della poesia. Quando uso una lingua tradotta il mio sforzo è proprio quello di restituire un linguaggio poetico. Per assurdo una versione in prosa tradotta da Franco Cuomo e da me riadattata risulta più sciolta, contemporanea e poetica di una versione in rima. L’esigenza è proprio quella di rendere questa parola più poetica, evocativa e anche più teatrale. In questo la prosa è vincente e sostituisce degnamente la poesia”.
“Cirano può essere considerato un esempio per il nostro tempo?”
“Assolutamente sì. Vent’anni fa, quando abbiamo iniziato a lavorare su questo spettacolo, la prima domanda che ci siamo fatti è stata: chi è Cirano oggi? Guardando il primo manifesto di ‘Cirano’, ho letto una dedica che diceva: ‘A Pier Paolo Pasolini, ultimo Cirano’. Questo mi fa sorridere se penso a vent’anni fa e alla ricerca di un riferimento. Però riflettendoci bene, Pasolini è stato un grande poeta e ha fatto una morte orribile. Un po’ come Cirano che dice di voler morire in un campo di battaglia”.
“Una delle armi vincenti di Cirano è data dalla somma del suo genio e della sua temerarietà. Questo lo rende uno dei personaggi più importanti del teatro?”
“Sicuramente. Non dimentichiamoci però di un aspetto legato all’amore, a qualcosa di molto più semplice. Lui rappresenta una contraddizione: è brutto ma dentro è bello. Questa contrapposizione esterno-interno trova il suo compimento in una società come la nostra basata più sull’apparire che sull’essere. Come una pallina che va in buca. Essere o sembrare? Cirano è. Quando tutti ci mettiamo il naso compiendo un processo di ‘nasificazione’, si verifica un rito collettivo. Proprio per questo Cirano diventa uno di noi e tutti diventiamo Cirano”.