Durante un corso di teatro a scuola, tre ragazzi portano in scena la storia dell’amore tra Piramo e Tisbe. Presto la realtà supera la fantasia e i due si innamorano anche nella vita reale. Il mito reso celebre dalle Metamorfosi di Ovidio arriva al Teatro Bruno Munari di Milano fino al 10 marzo e vede i due protagonisti contrastati dalle famiglie rivali, segregati nelle stanze di due case, dove riescono a comunicare solo attraverso una crepa nel muro. L’amore diventa qui uno spunto che dà vita a una serie di situazioni difficili, di conflitti e riflessioni. Il testo e la regia di Straniero due volte sono di Renata Coluccini e ne sono protagonisti Gabriele Majo, Marta Mungo e Andrea Panigatti.
La parola a Renata Coluccini
“Perché l’amore tra Piramo e Tisbe è contrastato dalle due famiglie?”
“Dato che è molto attuale, lo abbiamo considerato come un “Romeo e Giulietta” dei tempi antichi. Anche adesso succede infatti che le famiglie contrastino l’amore tra giovani. In questo caso accade perché uno dei due appartiene a un’altra etnia. Quindi il teatro a scuola che mette in scena Piramo e Tisbe diventa metafora di una situazione reale per i ragazzi.”
“Quale reazione provocherà nel terzo protagonista l’innamoramento tra gli altri due?”
“Il terzo protagonista è il fratello della ragazza che si innamora ed è amico dello straniero. Da questo innamoramento lui si sentirà escluso e dovrà confrontarsi con i propri problemi di estraneità: dovrà capire quanto è estraneo rispetto al mondo che vive, a se stesso e alla famiglia. Quello che noi volevamo fare in questo spettacolo non è parlare solo delle seconde generazioni, ma di quanto tutti noi, in particolare in età adolescenziale, ci sentiamo tutti stranieri. Lo siamo, siamo estranei davanti alle situazioni che viviamo, quindi anche davanti a noi stessi. E’ questo il focus dello spettacolo.
“Perché essere adolescenti vuol dire essere stranieri?”
“Perché in quel momento un adolescente cerca di capire chi è, si sente spesso in conflitto con il mondo che lo circonda e sta imparando a conoscerlo. Se ne deve allontanare ed è costretto ad affrontare una realtà che gli può sembrare ostile perché sta cercando se stesso e si sta definendo. Io credo che questa sensazione sia molto intensa in adolescenza, ma penso pure che anche noi adulti la viviamo ancora oggi in certe situazioni. In più, in quell’età, si ha spesso la percezione di essere esclusi da un gruppo e da una piccola comunita perché ci si sente diversi da tanti punti di vista, non solo perché si è stranieri.”
“Questo spettacolo che parla di ragazzi nati da genitori immigrati tira in ballo – magari anche solo indirettamente -l’attualissimo tema dello ius soli. Lei cosa ne pensa?”
“Io penso che un ragazzo nato e cresciuto qui debba avere la cittadinanza italiana. Il nostro protagonista è curdo e ha la sensazione di vivere in una terra di mezzo, perché anche lui non sa più chi è: non è abbastanza curdo né abbastanza italiano. Avverte che gli altri lo giudicano una persona sbagliata, ma dice di non esserlo. Di fatto è italiano, ma si sente in un ‘non luogo’, con il Kurdistan in casa e l’Occidente fuori. La famiglia lo rimprovera perché è troppo poco musulmano, fuori lo biasimano perché invece lo è troppo. Quindi lui si chiede chi è, anche se parla la nostra lingua e vive con i ragazzi italiani. Sente che questo è il suo mondo.
Quello che succederà domani dipende dai nostri ragazzi di oggi e prendere atto di questo cambiamento è fondamentale per loro e per noi. Farlo attraverso uno spettacolo che ci offre momenti divertenti e spunti di riflessione e poesia ci sembrava importante. Noi con lo spettacolo non offriamo risposte, ma forniamo domande, lanciamo piccole provocazioni e interrogativi su chi siamo. Non diciamo cosa si deve fare o come ci si deve comportare. A volte dico che non è una fotografia ma una radiografia della società di oggi.”