Nel 1300, mentre una pandemia incurabile dimezzava la popolazione europea, Giovanni Boccaccio scriveva di dieci giovani che decidevano di sfuggire al contagio rinchiudendosi in una tenuta fuori città, e forse un po’ per esorcizzare la sfortunata contingenza, sceglievano, per dieci giorni, di raccontarsi storie. Ogni giorno uno dei villeggianti, eletto re, propone un tema, stimolando i compagni a raffigurare le contraddizioni della società del loro tempo.
Decameron nasce da un progetto di Stefano Cordella, che ha anche diretto lo spettacolo, con la drammaturgia di Filippo Renda. Ne sono protagonisti Woody Neri, Alice Redini, lo stesso Filippo Renda, Daniele Turconi, Nicolò Valandro e Silvia Valsesia. Lo spettacolo è in scena dal 23 giugno al 10 luglio al Teatro Litta di Milano.
Intervista a Stefano Cordella
Cos’è successo il 19 settembre 2020 in Union Square a New York?
E’ apparso un timer che ha iniziato il suo conto alla rovescia e pare che siano i giorni che ci separano dal disastro ambientale. Questo spunto ha innescato una serie di riflessioni tra me e Filippo Renda, che poi abbiamo diviso con il cast, per interrogarci sul tema della fine. Comunque quando si ha a che fare con un evento così straordinario, dal potenziale drammatico com’è stato e com’è tuttora il Covid e come sono state in passato le pandemie, ci si interroga sul proprio rapporto con la fine.
Perché questa fine sembra non arrivare mai e allo stesso tempo se ne ha anche paura. Queste riflessioni ci hanno messo in relazione con il testo di Boccaccio e abbiamo cercato di portare avanti questo nostro Decameron – nel senso che ci siamo chiusi al Teatro Litta per due settimane – lavorando però con la struttura disegnata da Boccaccio. Ogni giorno uno degli artisti veniva eletto re della giornata e proponeva un tema legato al concetto di fine e alle contraddizioni della nostra società.
Che parallelismi ci sono con la pandemia che viene raccontata da Boccaccio?
Come accade in “Decameron”, i ragazzi e le ragazze che si rinchiudono in questa casa sono dei privilegiati. Partiamo da questo punto di partenza. Noi siamo stati dei privilegiati a poterci permettere di chiuderci in un teatro quando nessuno o la maggior parte delle persone non lavorava, quindi c’è quel rapporto da privilegiati con una condizione drammatica. Raccontare storie è un modo per essere autori. I protagonisti di Boccaccio raccontavano storie.
Il nostro ruolo di autori è cercare un modo nuovo o rubare dalla tradizione per raccontare storie e per trovare dei nuovi modi per creare un legame con il tempo presente e con la società. Quindi questo è senza dubbio il parallelismo principale e poi senza dubbio anche le relazioni che scattano tra i protagonisti diventano parte fondamentale del processo di drammaturgia, perché si creano dei rapporti tra questi villeggianti che si raccontano storie come accade tra i nostri artisti, che si raccontano storie. Quindi inevitabilmente i temi si contaminano.
Che similitudini ci sono tra la pandemia raccontata da Boccaccio e quella da cui forse – grazie a Dio – stiamo uscendo?
Sicuramente la pandemia raccontata da Boccaccio ha causato molte più vittime, perché non c’erano cure e quindi era una condizione molto più estrema, anche se per noi che ovviamente non abbiamo vissuto quegli anni il fatto di dover rinunciare alla socialità, il fatto di non poter avere il contatto umano e fisico, il fatto di doverci fermare dalle nostre abitudini sono state condizioni estreme e ci hanno portato a fare una sorta di terapia forzata. Quindi il parallelismo principale è il tempo che abbiamo avuto a disposizione come l’hanno avuto a disposizione i protagonisti del Boccaccio per riflettere e per interrogarci su quali siano i problemi pre-pandemia e come immaginarci un futuro post-pandemia. Questo avviene in entrambi i campi da gioco.
Quale segno vorremmo lasciare prima che tutto finisca?
Vorrei dirti speranza e ci siamo interrogati sul tema della speranza. Faccio un po’ fatica, perché in pochissimo tempo sono cambiate le aspettative sul futuro. Se si pensa al tempo dei balconi, dei canti, della positività, dell’ottimismo e dell’ “andrà tutto bene”, poi invece ci siamo scontrati con una realtà diversa. Quindi mi viene da dire: proviamo a recuperare un po’ di stabilità mentale e fisica, lasciamo un segno di stabilità ma anche di riprendere un po’ il gioco in tutti i sensi. Riprendiamo a giocare con le nostre fragilità. Non lasciamoci schiacciare, non chiudiamoci su un divano, cerchiamo di non aver paura di riaffrontare quello che viene fuori. Questo è il segno se dovesse andare bene. Se dovesse finire tutto, lasciamo qualcosa di bello e di artistico come può essere uno spettacolo.
- Intervista video di Andrea Simone
- Foto di scena fornite da Manifatture Teatrali Milanesi
- Si ringrazia Alessandra Paoli per la collaborazione