Anton Cechov è uno degli autori preferiti del regista Stefano Cordella, che porta in scena Io non sono un gabbiano, ispirato al capolavoro del grande drammaturgo russo Il gabbiano. Nello spettacolo in cartellone al Teatro Menotti di Milano dal 15 al 18 febbraio, tutto comincia con un funerale, quello di Arkadina, la celebre protagonista dell’opera cechoviana. Il pubblico si trova di fronte alla rilettura e riscrittura originale di Stefano Cordella e della Compagna Oyes, alle prese per la seconda volta con un testo di Cechov dopo il successo di Vania. Sul palcoscenico troviamo Francesco Meola, Camilla Pistorello, Umberto Terruso, Dario Merlini, Dario Sansalone, Camilla Violante Scheller, Daniele Crasti e Fabio Zulli.
Quattro domande a Stefano Cordella
“Anche in questo spettacolo, in cui si sente la presenza di Cechov, è l’amore a dominare le relazioni e i conflitti tra i personaggi, giusto?”
“Esatto. E’ un amore malato perché tutti i protagonisti sentono un forte bisogno di essere guardati e considerati. Questo li porta all’estremizzazione dei rapporti personali e amorosi. C’è una frustrazione che deriva dal non sentirsi apprezzati e che si traduce nei rapporti d’amore alla base di quasi tutti i racconti e i drammi di Cechov. Anche nelle nostre riletture le relazioni d’amore non corrisposto sono al centro delle vicende. Tutti si cercano ma nessuno si trova. C’è sempre un’insoddisfazione di base”.
“Sono questi elementi a danneggiare quest’amore?”
“Sì, ma non solo: il danno nasce anche dal tentativo di mettere qualcosa davanti a se stessi e alla propria dignità pur di essere guardati. Quindi diventa un amore narcisistico, privo di una reciprocità su cui dovrebbe essere basato un amore pulito”.
“Perché i personaggi di questa commedia fanno di tutto per non essere felici?”
“Perché cercano altro. Oscar Wilde diceva che la vera felicità consiste nel desiderare quello che si ha, e loro non lo fanno”.
“Che cosa potrebbe salvare i protagonisti?”
“Questa è una domanda interessante che ci siamo posti più volte anche noi. I personaggi potrebbero essere salvati da una richiesta d’aiuto reale, cosa che può avvenire solo nel momento in cui risolvono conflitti e tensioni. Noi raccontiamo una piccola comunità formata da persone che portano avanti le loro storie autonomamente, senza un dialogo reale tra loro. Infatti il nostro testo è caratterizzato da tantissimi monologhi. Parlarsi un po’ di più, invece che vivere la frustrazione, e riuscire a mettere in piedi un dialogo autentico potrebbbe essere la soluzione”.