Paolo Costantini, “Uno sguardo estraneo”

Uno sguardo estraneo è un dispositivo performativo, il cui obiettivo è mettere a fuoco il rapporto che si ha con la percezione del tempo, il suo legame con il concetto di felicità e la relazione esistente tra l’uomo e l’oggetto con i quali condivide la propria quotidianità.

Uno sguardo estraneo è in scena al Teatro i di Milano dal 18 al 29 maggio. Scritto da Linda Dalisi e diretto da Paolo Costantini, lo spettacolo vede protagoniste Evelina Rosselli e Rebecca Sisti.

Quattro domande a Paolo Costantini

Che tipo di slittamento ha subito la concezione della felicità?

Nel progetto Uno sguardo estraneo noi partiamo dal romanzo di Herta Muller che si chiama Oggi avrei preferito non incontrarmi in cui lei definisce la felicità come felicità rovesciata. Il libro è solo uno dei punti di ispirazione, perché un altro è un saggio filosofico di Agustin Garcia Calvo intitolato Della felicità. In questo libro lui fa un’analisi tagliata del rapporto che la società ha avuto con l’idea di felicità rispetto al rapporto con il tempo e con il pensiero. Parte dalla gioia come atarassia e come ricerca di un’imperturbabilità per poi arrivare a raccontarla attraverso l’intrattenimento che lui definisce come assenza di felicità e riempitivo di un vuoto che viene adoperato dalle persone, in particolar modo da parte della società, per controllare e gestire l’assenza che altrimenti farebbe crollare tutto.

In che modo si è modificata la percezione della vita?

A partire dal rapporto con il tempo, tutto quello che prima era legato ad un processo tende sempre di più all’istantaneità e quindi all’immediatezza. Questo comporta sempre il fatto di essere in una situazione, ma nel momento in cui ci sono, sto già pensando alla prossima situazione in cui mi troverò o sono in più situazioni contemporaneamente.

Rispetto a questa dimensione del tempo, per esempio, il rapporto che si ha con la memoria e con l’imparare a memoria è legato al fatto che io prima per una curiosità dovevo andare ad aprire un libro e a leggere un’enciclopedia. Dovevo fare un percorso di ricerca che mi portava alla nozione di cui ero curioso e nel frattempo imparavo una serie di cose parallele. Adesso, con il fatto che Internet è a portata di mano, tutti quanti abbiamo un telefono. In un istante riesco a trovare quello che voglio, però due minuti dopo me ne sono già dimenticato.

Come si riflettono le nevrosi nella quotidianità?

In relazione a un tentativo di controllare il tempo e l’entropia, e di cercare di mantenere un controllo sulla dimensione di dover essere sempre in azione, quindi a partire dalle nevrosi come il dover riordinare necessariamente uno spazio prima di poter iniziare a lavorare o dei tentativi di gestire il proprio essere all’interno di un luogo che impone moltissimi input contemporaneamente e quindi la mente cerca di strutturare una serie di sistemi per controllarsi.

Stiamo diventando estranei di noi stessi?

Io credo di sì perché divento estraneo nel momento in cui non vivo più un’esperienza. Nei concerti non ascolto più la musica ma ci vado per fare un filmato e in questa dimensione di riproducibilità dell’evento succede che in quel momento smetto di vivere l’evento come esperienza ma diventa qualcos’altro. Sto già pensando ad un futuro in cui lo riguarderò, se lo riguarderò. Lo stesso discorso vale per il teatro e per gli eventi che accadono anche nelle relazioni sentimentali in cui spesso il momento viene falsato da una tensione dovuta anche ai nuovi media come il telefono.

  • Intervista di Andrea Simone
  • Si ringrazia Maria Gabriella Mansi per la collaborazione
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