Debutta mercoledì 15 febbraio in Sala Treno Blu al Teatro Franco Parenti di Milano, dove rimarrà in scena fino a domenica 19, Hai appena applaudito un criminale. Si tratta di uno spettacolo scritto e intepretato da Daniela Marazita, per la regia di Alessandro Minati.
Il teatro e il mondo delle carceri
La pièce è tratta dal diario di un laboratorio teatrale tenutosi nel carcere di Rebibbia con 12 detenuti. Qui Daniela Marazita lavora da molti anni nel reparto dove sono rinchiusi i responsabili di reati infamanti come i reati sessuali, gli ex poliziotti e i collaboratori di giustizia, i cosiddetti infami. Dalle riflessioni intorno a questo laboratorio è nato un libro divenuto il monologo Hai appena applaudito un criminale. E’l’ intenso racconto dell’esperienza di una donna che sfida il pregiudizio estremo, scegliendo di fare teatro in carcere con uomini colpevoli di indicibili reati.
La parola a Daniela Marazita
Teatro.Online ha intervistato Daniela Marazita, autrice e protagonista dello spettacolo.
“Come mai ha deciso di far diventare uno spettacolo teatrale la sua esperienza di lavoro con i carcerati?”
“Prima che diventasse uno spettacolo teatrale è diventato un piccolo libro, un racconto. Nell’occasione delle varie presentazioni, siccome io sono un’attrice, mi rendevo conto soprattutto dell’interesse, dell’attenzione, dell’infinità di domande, di quanto potessero essere interessanti l’argomento e la sostanza della cosa. E’andata da sé. Probabilmente mi sono accorta dopo che è stato scritto in una forma monologante. Evidentemente era in nuce ed è andata così. Poi l’incontro con Luca De Filippo, che è una persona e un artista al quale io sono profondamente legata da diversi decenni, ha concluso magicamente quest’esperienza”.
“Quali insegnamenti ha tratto dallo stare a stretto contatto con i responsabili dei cosiddetti reati infamanti?”
“Una regola di vita è quella che ci sono delle contraddizioni che non si possono risolvere. Si accettano. Nell’accettare le contraddizioni si può riuscire a comprendere anche le ragioni degli altri. E’ una grande lezione sulla diversità, sul bene, sul male e sull’infliggere un tipo di pena. Ci si chiede se il carcere è una pena, se la privazione della libertà serve davvero in certi casi esclusivamente oppure ha bisogno di qualcos’altro. Ho imparato anche che il teatro ha un potere incommensurabile per comunicare, per mettersi in discussione, per spostare il proprio punto di vista e vedere il mondo e la vita in un’altra prospettiva”.
“Che tipo di riflessione vuole aprire il teatro in un caso come questo?”
“La possibilità di comunicare creativamente attingendo a patrimoni personali. Non c’è alcun bisogno di metodi o di particolari preparazioni o predisposizioni o talento. Sì, tutte queste cose indubbiamente ci sono. Se ci guardiamo intorno, il panorama teatrale e artistico è veramente denso di proposte interessanti. Però la sostanza del teatro in carcere si riappropria del suo naturale, profondo e gigantesco senso”.
“Perché in questo tipo di lavoro si semina senza aspettative?”
“Perché queste attività in carcere sono legate al volontariato. Nel concetto stesso di volontariato secondo me è necessario includere l’insuccesso. Includendo l’insuccesso si ha la possibilità di raggiungere un risultato apprezzabile. E’ quasi come un regalo, che non è una lezione cattolica o buonista. Credo fermamente che finché non ci sia la possibilità di essere previsti dall’ordinamento penitenziario e dal Ministero di Grazia e Giustizia come lavoratori dipendenti dedicati a questo scopo, cioè a fare teatro, ci sia solo il volontariato. Quindi non ci sono troppe alternative, bisogna fare, poi dopo, nel frattempo si vedrà. A me è capitato così. Io lavoro come volontaria”.