CORRADO D’ELIA, “IO, MOBY DICK”

Il capitano Achab, al comando della baleniera Pequod, è alla ricerca di Moby Dick, la terribile balena bianca che durante una battuta di caccia gli ha amputato una gamba, distrutto la nave, mandato a picco il carico e ucciso molti uomini. Achab, accecato dalla sete di vendetta, conduce la nave per mari pericolosi, alla ricerca ossessiva della balena, che riesce sempre, misteriosamente, quasi diabolicamente a salvarsi.

Io, Moby Dick è lo spettacolo con cui Corrado d’Elia torna al Teatro Litta di Milano dal 9 al 19 dicembre. Liberamente ispirato a Moby Dick di Herman Melville, la pièce nasce da un’idea dello stesso D’Elia, che ha anche firmato la regia.

Quattro domande a Corrado d’Elia

E’ solo lo spirito di vendetta a guidare il capitano Achab alla ricerca di Moby Dick o c’è anche qualche altro sentimento?

Da una parte c’è la vendetta verso quel mostro che gli ha morsicato e tolto una gamba, dall’altra c’è la sete di conoscenza e di andare oltre lo spirito che l’uomo ha da sempre – da Ulisse a Prometeo – di cercare il motivo dell’esistenza. Quindi non c’è solo la ricerca di una balena in tutti i mari e gli oceani, che è un compito arduo solamente a pensarci, ma dall’altra parte c’è anche il fatto di trovarsi su una nave con le due grandi immensità: da una parte il mare e dall’altra il cielo, sempre così belli e azzurri, eppure così muti e insondabili. L’uomo, davanti a tutto questo, non può che porre una serie di domande e in quelle ci ritroviamo assieme ad Achab.

Perché Moby Dick è il simbolo del desiderio dell’uomo di appropriarsi della conoscenza?

Moby Dick rappresenta tante cose positive ma soprattutto negative. C’è chi lo guarda anche in termini religiosi e c’è chi invece vede in lui l’impossibilità dell’uomo di avere delle risposte. Quando noi parliamo di Leviatano, troviamo dei termini che ci sono anche nella Bibbia e che si riferiscono a qualcosa di negativo. Non possiamo arrivare al fondo dell’abisso, mentre un Leviatano sì. Laddove ogni cosa è dimenticata, vive Moby Dick e quindi, inevitabilmente, ci si chiede cosa potrà mai vedere una testa grande venerabile. Poi c’è il male, perché da sempre, soprattutto nei testi sacri, è stato visto come qualcosa di negativo. Ognuno di noi, soprattutto in questo testo che io ho riscritto ex novo, prenderà la propria posizione.

E’ giusto collocare Achab a metà strada tra Ulisse e Caronte?

Credo proprio di sì. Achab si mette su una nave piuttosto piccola e incerta. Anche l’Ulisse dantesco racconta la stessa cosa: dice di essersi messo su una piccola barca e di aver ripreso il mare assieme a pochi compagni. Anche Achab fa così. Ci sono molte similitudini tra lui e Ulisse. L’equipaggio del Pequod, la nave che comanda Achab, è piccolo, sono solo 40 uomini, ma sono cifre ovviamente simboliche. Noi stravolgiamo i nostri sensi e la nostra voglia di conoscenza, quindi ci ritroviamo per forza in questa similitudine: da una parte c’è chi dà il fuoco all’uomo e viene punito da Dio; dall’altra c’è chi cerca la conoscenza e Dio lo castiga.

Sopra tutti mi viene da dire che ci sia – lontano lontano ma molto presente – il mito di Faust, che arriverà a fare il patto col Diavolo. In un’epoca in cui non si fanno più domande e le uniche che poniamo sono quelle per Google, dobbiamo concludere che anche la filosofia è finita perché ha preso strade più antropologiche. Riparlare di Moby Dick vuol dire riporre la questione all’uomo. In un momento in cui il virus ci disegna contorni indefiniti, lo stesso mettersi in viaggio credendo in qualcosa è un’azione di coraggio.

Quella tra l’uomo e la natura è destinata a rimanere una lotta impari?

Per forza, è sempre così. Noi viviamo sentendo, conoscendo e sfiorando il limite. L’uomo può sfiorare il cielo ma non può arrivare oltre. Ovviamente sto facendo un discorso metaforico, non penso a un uomo in una navicella che va sulla luna. L’uomo sfida la natura e questo è sempre successo per diversi motivi: perché è irrequieto, perché ne ha bisogno, perché sente dentro di sé lo stimolo, per natura e pulsione. Il risultato è sempre impari. Anche qui ce lo insegna la contemporaneità: i grandi cambiamenti climatici ci raccontano che possiamo sfidare la natura quanto vogliamo, ma alla fine vince lei. Parlare di Moby Dick vuol dire parlare dell’oggi, di tante cose, ma soprattutto avere un occhio rivolto a noi, alle nostre domande, e al di fuori di noi, a quello che sta succedendo.

  • Intervista di Andrea Simone
  • Si ringrazia Alessandra Paoli per la collaborazione
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