CORRADO D’ELIA E LE LEGGENDARIE NOTE DI BEETHOVEN

250 anni fa nasceva uno dei più grandi geni della musica classica. Corrado d’Elia rende omaggio alla musica, al talento artistico e alla passione di Ludwig Van Beethoven, mettendone in risalto però anche i suoi lati più umani: il difficile rapporto con il padre, gli amori, la sordità e le passioni. In Io, Ludwig Van Beethoven, al Teatro Litta fino al 25 ottobre il pluripremiato regista e attore si concentra su una delle composizioni più famose.

Parla Corrado d’Elia

E’ la nona sinfonia la vera protagonista dello spettacolo?

Il vero protagonista è il genio di Beethoven, a cui mi avvicino e che indago. Noi cerchiamo di arrivare alle sue vette per accostarci a qualcosa di grandioso. Qualcosa che ci fa vibrare e provare tante emozioni. Il genio è spesso incomprensibile e inafferrabile. Se però ci avviciniamo a lui, anche noi ne siamo influenzati. La nona sinfonia rimarrà per sempre nella vita dell’umanità e fa parte di un genio che l’ha creata.

Fu la sua tenacia, oltre al suo genio, a renderlo così vincente in un ambiente come quello di Vienna che molte volte remò contro di lui?

Sì, in quel periodo Vienna era la capitale e il centro della musica. Tutti passavano di lì. Beethoven non si preoccupò mai di andare verso le persone: in questo fu coerente con la propria tenacia fino in fondo e lo racconto nello spettacolo. Ha sempre ascoltato quello che sentiva e ogni volta lo ha trasformato in musica, tant’è che molte persone non lo sopportavano per il suo caratteraccio. Era inviso a tanti: lo invitavano, ma perché era un genio riconosciuto. Aveva però un carattere particolare: non frequentava nessuno, non aveva amici né donne di riferimento in particolare. Fu quindi una persona che non volle accostarsi al pubblico. La sua è una figura importante per il genio, non per la volontà di farsi riconoscere.

Sono tanti anni che stai facendo questo spettacolo: quanto è cambiato e maturato rispetto al 2013?

Per me scrivere uno spettacolo, pensarlo e farlo uscire dalla mia anima significa farlo rimanere per sempre. Io credo nel repertorio. Quello che faccio è scrivere qualcosa di me, che quindi necessariamente matura con me. Quando oggi racconto Van Beethoven rispetto a qualche centinaio di repliche fa, ho coscienza di ogni singola parola. Spesso mi diverto a cambiare sul palco, perché approfondisco e metto in scena una ricerca davanti al pubblico in quel preciso momento. Sono aspetti che creano una stratificazione di emozioni e di miglioramenti dello spettacolo. Credo che questo sia il vero patrimonio del teatro d’autore. Come in tutti i personaggi dei miei spettacoli, nel titolo metto la parola “io” davanti. Non solo per presentare la soggettiva e l’interpretazione del personaggio, ma perché racconto di altri per raccontare di me.

L’Inno alla Gioia è l’inno dell’Unione europea. Quanto ti rende orgoglioso portarlo in scena in un momento sociale, politico e soprattutto sanitario così difficile per il Vecchio Continente?

Ti ringrazio di questa bellissima domanda! Mi rende orgogliosissimo! Provo ogni volta un brivido. Sarebbe bello che tutti i teatri aprissero con l’inno europeo, come ho sentito fare addirittura in Russia prima dell’inizio dello spettacolo. Perché nelle parole dell’inno c’è questo desiderio di unione e fratellanza, nello stare insieme sotto ad ali che ci benedicono e ci proteggono. Dovrebbe essere proprio nel nostro Dna!