L’alimentazione, il rapporto con il cibo come forma di compensazione al dolore, come alienazione di un Occidente decadente e sovralimentato, sempre più distratto e imprigionato dai suoi passatempi superflui, la questione ambientale, la solitudine e la responsabilità: sono questi i temi attorno ai quali di sviluppa il mondo di Miracoli metropolitani.
Carrozzeria Orfeo presenta il suo nuovo spettacolo alla sala Shakespeare del Teatro Elfo Puccini di Milano fino al 30 dicembre. La drammaturgia è di Gabriele Di Luca, che ha anche firmato la regia con Massimiliano Setti e Alessandro Tedeschi. Ne sono protagonisti Elsa Bossi, Ambra Chiarello, Federico Gatti, Aleph Viola, Beatrice Schiros, lo stesso Alessandro Tedeschi e Federico Vanni.
A tu per tu con Gabriele Di Luca
Hanno definito questo spettacolo “una commedia dove si ride tanto ma dove non si ride affatto”. Cosa significa secondo te?
In America definiscono questo genere dramedy: qualcosa costruito su un impianto tragico sviluppato però in modo comico. Cosi funzionano Miracoli metropolitani e in generale tutta la nostra poetica. Nei nostri spettacoli ci sono sempre grandissimo divertimento e molta ironia personale e sociale, ma sono presenti anche temi urgenti, forti, duri e severi del presente, che ci interessa indagare e su cui si costruiscono poi realmente le relazioni tra i personaggi e i conflitti che il pubblico vede in scena. Questo non significa che noi non riusciamo ad affrontarli in modo comico e leggero nel senso più alto del termine.
Dietro al testo c’è il racconto della solitudine sociale e individuale?
Assolutamente sì. E’ un Occidente decadente, in disfacimento, sovralimentato, viziato e – come diciamo nella scheda di presentazione – imprigionato nei propri passatempi superflui. Quello che ne resta è una solitudine sociale e individuale molto forte. C’è un mondo esterno violento, fondamentalmente razzista ed egoista, dove le fogne sono esplose, la città è ricoperta di liquami, la disoccupazione è al 60% e gli esseri umani sono soli, nel senso più alto della storia del benessere dell’Occidente. Sono persone frustrate.
Perché l’Occidente ha anche un rapporto conflittuale di paura nei confronti del cibo?
Perché quando definisco sovralimentato l’Occidente, parlo proprio di questo nello spettacolo. Facendo delle ricerche, ho letto anni fa che l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva rilasciato delle dichiarazioni pubbliche molto gravi: diceva che il 40-50% dei test per le intolleranze alimentari che avevamo acquistato negli ultimi dieci anni non erano sempre scientificamente provati o costruiti su fondamenti scientifici solidi. Questo mi fa venire quindi in mente che ogni nuovo problema o dolore viene strumentalizzato o commercializzato.
Noi abbiamo passato gli ultimi cinquant’anni far sviluppare coltivazioni agricole intensive e massive, e prodotti geneticamente modificati, per dare sempre più da mangiare a un Occidente sovralimentato e opulento. Anche questo ci ha fatto sviluppare delle intolleranze alimentari. Non appena si sono diffuse, ecco che il mercato ha trovato un nuovo modo per sfruttarci ancora una volta: i cibi per intolleranti costano il quadruplo rispetto a quelli normali, i test per le intolleranze non sono sempre attendibili e costano un patrimonio. Il rapporto del cibo viene visto come compensazione del dolore e come modo di trasmettere amore. Questa è una cosa importante da dire.
Trova anche spazio il mondo di Internet. In questo spettacolo lo presentate come un elemento di fuga dalla realtà?
Lo proponiamo anche come un elemento di trappola. Internet compare soprattutto per due personaggi: Clara, un’ex lavapiatti che ora ambisce a diventare un’imprenditrice di classe, ma che in realtà è una donna rozza e bizzarra, molto sola, che è continuamente su Instagram ed è piena di amici virtuali, che però non sono mai reali. L’altro è suo figlio Igor, che passa tutto il giorno recluso in camera a giocare a un giochino che va di moda, chiamato “Affonda l’immigrato”, senza comprendere minimamente a che cosa sta giocando. C’è il racconto di una modernità dove l’intelligenza emotiva viene meno e manca, dove non sappiamo più riconoscere cos’è l’altro, sia perché le amicizie virtuali non sono solide sia per la questione dei videogame.
- Intervista di Andrea Simone
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