Due donne sulla scena: Elisabetta Ratti e Marisa Della Pasqua; una dalla quinta, Adriana Mangiarotti, nel ruolo di un personaggio che parla attraverso il proprio violino. Sullo sfondo la Rivoluzione francese. Due personaggi diversi fra loro ma accomunati da un tratto e da un destino comune: l’ignoranza e la reclusione in una cantina, dove sono costrette a lavare i panni sporchi dei nobili ghigliottinati. Una parla un dialetto meridionale sgrammaticato, l’altra si esprime in moldavo. Riusciranno a capirsi e magari a far nascere un’amicizia?
Uno spettacolo che nasce dall’esigenza di scrivere un pezzo al femminile ma non solo, oltre che dalla passione di Elisabetta Ratti per la storia e le biografie. Tantissimi i temi principali e i sentimenti della pièce: dalla solitudine all’isolamento; dall’incongnita (e quindi dalla paura) del futuro all’impotenza di fronte agli avvenimenti della storia. Una vicenda dove lo spazio intermedio diventa luogo di riflessione della tragedia.
I girasoli è in scena alla sala Chaplin del Binario 7 di Monza dal 4 al 6 febbraio. Il testo, vincitore del Premio Fersen 2010, è stato scritto da Elisabetta Ratti ed Emanuela Bolco, che ha anche collaborato alla regia firmata dalla stessa Elisabetta Ratti. La voce fuori campo della lettera di Camille Des Moulins è di Gabriele Calindri.

Intervista a Elisabetta Ratti
In questo spettacolo si parla di restituire dignità alla morte, in particolare a quella di un personaggio. Vogliamo approfondire quest’aspetto?
Sì. Le due protagoniste della storia decidono di portare delle scarpe a Maria Antonietta in modo che possa salire al patibolo camminando da regina. Questo è uno dei particolari della Storia che abbiamo utilizzato e sviluppato nella drammaturgia: Maria Antonietta, prima di andare morire, ha infatti realmente chiesto delle scarpe. Era ormai distrutta, i suoi capelli erano tutti grigi perché durante gli interrogatori del processo era stata molto male. Temeva quindi che il popolo non l’avrebbe riconosciuta e pensava che con le scarpe avrebbe potuto camminare da regina e farsi identificare dalla gente come tale.
In questo spettacolo la Rivoluzione francese è un po’ un pretesto. Abbiamo preso una situazione in cui tutto precipita e messo in questa zona di riflessione due persone che non sanno assolutamente niente, ma che riflettono sulla Storia attraverso quello che vedono e sentono.
Come convivono e si equilibrano nella pièce tragico e comico?
Un po’ allo stesso modo in cui lo fanno anche nella vita: per esempio, capita che ai matrimoni si pianga e ai funerali si rida per reazione. In una situazione paradossale in cui tutto frana, dove non si sa bene cosa succede e da che parte stare, i fatti tragici vengono stemperati dalla voglia di vivere e di reagire. Ti porto come esempio una cosa che avevo letto da cui ero rimasta molto colpita: nei campi di concentramento una detenuta ha scritto che alla mattina le ragazze francesi si truccavano col fango delle pozzanghere canticchiando.
Nel tragico l’uomo cerca di sdrammatizzare e quando è felice trova sempre il modo di essere anche un po’ triste. Il contesto dello spettacolo è assurdo perché le due protagoniste non sanno niente e agiscono come possono. L’unico atto di ribellione che possono permettersi è quello di consegnare le scarpe a una regina che ha perso i figli e che è stata una madre. Entrambe comprendono la Storia con la loro umanità.

Per quali motivi il vostro spettacolo presenta tante similitudini con l’epoca che stiamo vivendo?
Perché anche oggi viviamo un po’ da reclusi; perché non sappiamo come andranno le cose; per il fatto di essere bombardati da notizie discordanti. Inoltre, anche la politica del nostro Paese in questo momento è un po’ instabile. Oltretutto, il disagio dovuto al Covid è diffuso in tutto il mondo. Quella dell’isolamento è una situazione in cui si riflette e si vedono le cose in maniera un po’ più profonda. In realtà, i temi della nostra pièce sono eterni: c’è chi comanda e chi deve ubbidire; ci sono la vita, la morte e il genere umano.
Nello spettacolo c’è una frase in dialetto napoletano: “Qualcosa s’ha dda fare. Lu fare bene non se perde mai e sempe che puoi, fa’ bene e scuordatenne!”. Ci vuoi spiegare cosa vuol dire, sia letteralmente che come significato?
E’ un motto: “se vedi che la situazione non va bene, fai quel che puoi nel tuo piccolo, cerca di farlo bene ed eventualmente scordatelo”. E’ un po’ la stessa situazione che viviamo in teatro. Questo testo è uscito dopo dieci anni e secondo me oggi è il momento giusto per proporlo agli spettatori. Sono contenta di avere aspettato un po’ prima di metterlo in scena. I teatranti possono parlare solo attraverso quello che sanno fare, cioè i loro spettacoli. Questa pièce è importante per noi per le sue parole e per quello che si dice. Ci siamo autoprodotte, abbiamo lavorato tantissimo e cercato di fare ogni cosa nel migliore dei modi. Speriamo quindi che trovi una propria strada e di poterlo far conoscere al pubblico il più possibile.
- Intervista di Andrea Simone
- Foto di scena di Elena Manzetti
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