Destinazione non umana è una favola senza morale e amara quanto può esserlo una fiaba, costruita sulle solitudini alle quali ci costringe il tempo che viviamo e sul pensiero della morte. Sul vuoto lasciato da chi se n’è andato, sul dolore, la rabbia, la paura. E sullo sforzo bestiale di vivere contro e nonostante la certezza della morte.
Lo spettacolo, scritto e diretto da Valentina Esposito, è in scena dal 17 al 19 novembre al Teatro Litta di Milano con Marcello Fonte, Alessandro Bernardini, Luca Carrieri, Matteo Cateni, Chiara Cavalieri, Christian Cavorso, Viola Centi, Massimiliano De Rossi, Massimo Di Stefano, Michele Fantilli, Emma Grossi, Gabriella Indolfi, Giulio Maroncelli, Piero Piccinin, Giancarlo Porcacchia e Fabio Rizzuto.
La parola a Valentina Esposito
Perché come animale hai scelto proprio il cavallo per far riflettere sul problema tragico della predestinazione?
Tutti i nostri lavori partono da un laboratorio di ricerca importante e duraturo, che in quell’occasione ho svolto con attori professionisti e studenti in collaborazione con le università. Lavorando su temi come la predestinazione, è emersa la figura del cavallo. “Destinazione non umana” è un termine tecnico che viene dal mondo equino. Ho pensato che fosse luminoso ed epifanico. I cavalli a destinazione umana sono quelli non destinati alla macellazione; per razza, provenienza e storia genetica. Vengono usati per le corse, quindi possono rimandare il loro destino di morte.
Dunque servono per l’ippica?
Sì. I nostri attori conoscono ovviamente molto bene il mondo delle scommesse, delle corse clandestine, dell’illegalità e del gioco. I cavalli a destinazione non umana, nel momento in cui si feriscono, vengono anche illegalmente macellati, anche se non dovrebbe succedere perché sono imbottiti di droghe. Questa storia ha risuonato dentro di me in maniera potente perché aveva delle somiglianze forti con le biografie degli attori.
C’erano delle similitudini?
Assolutamente sì, perché l’idea che la vita sia una corsa da vincere portava qualcosa che raccontava il pericolo.
Anche quello di non potersi ritirare?
Sì e di doverlo correre per forza all’interno di una costrizione, perché il cavallo è governato dall’uomo. Poteva essere una metafora forte per raccontare il rapporto dell’uomo con la morte e con Dio, perché chiaramente, traslando i piani, il cavallo è governato dall’uomo e l’uomo da Dio. Tornava quindi il tema della predestinazione.
Quant’è forte il tema della solitudine?
E’ fortissimo. Innanzitutto questo spettacolo è nato durante il periodo della pandemia, che è stato complicato per tutti. Dunque ho lavorato spesso singolarmente con gli attori per mettere insieme il lavoro e cucire il montaggio alla fine del percorso di ricerca. La solitudine dell’animale è forte in questi box dove i cavalli da corsa sono relegati 23 ore al giorno. Si allenano solo per un’ora fuori dai loro tre metri quadrati. La cella può essere sia dell’attore che dell’essere umano. La costrizione del cavallo racconta molto la solitudine dell’uomo.
Quindi mettiamo sullo stesso piano il cavallo e l’essere umano?
Assolutamente sì.
Però non c’è una morale in questa favola, giusto?
No, perché l’allestimento è assolutamente polifonico, nel senso che ogni personaggio porta sulla scena un punto di vista in relazione al tema della morte e a quello del proprio destino. Di conseguenza non c’è una posizione predominante.
E’ ineluttabile?
E’ l’essenza della tragedia: non c’è un punto di vista risolutivo.
I tuoi attori sono ex detenuti. Hanno portato qualcosa della loro esperienza personale in carcere nella realizzazione di questo spettacolo?
Mi fa piacere ricordare che all’interno del cast ci sono attori che non sono stati reclusi in prigione, perché io lavoro sul reinserimento. Dunque è per me fondamentale che anche il teatro sia un contenitore di contatto con altri contesti. Bisogna gestire la relazione con il carcere dal punto di vista etico. E’ qualcosa che bisogna problematizzare, nel senso che le esperienze di teatro in carcere sono tantissime e questa è l’unica esterna. A volte la presenza di questi attori viene un po’ strumentalizzata all’interno di questi progetti. Su quest’aspetto io sono molto sensibile, cerco di scavalcare tale dimensione e di portare sulla scena una proposta di teatro che ha chiaramente le sue radici in quel contesto, ma lo supera per incontrare lo spettatore sul piano artistico.
La mia idea di teatro è quella di prendere i fili universali dei soggetti sulla scena, cioè quello che può creare un legame con lo spettatore partendo da quell’esperienza. Ecco perché nello spettacolo la reclusione del soggetto diventa la reclusione dell’uomo rispetto al destino: per scavalcare la soggettività, anche se essa rende vera, autentica, credibile e fortissima la loro presenza sul palcoscenico.
C’è un caso particolare tra gli attori che hai scelto da cui sei stata colpita in modo speciale per il suo vissuto reale?
(ride). Hanno tutti delle storie importanti dalle quali ho imparato molto. Uno degli attori ha vissuto un periodo di trentadue anni di reclusione, un tempo infinito. Ha iniziato a lavorare in teatro quando l’ho conosciuto nel carcere di Rebibbia. Era recluso in Alta Sicurezza e ha cominciato a fare teatro proprio per respirare. Era in una condizione detentiva che lo costringeva a una giornata di chiusura di venti ore e mezza al giorno. Lavorare in palcoscenico era per lui un momento liberatorio.
Anche catartico?
Sì. Poi è iniziata la storia d’amore con il teatro e questa persona ha lavorato con me per 18 anni in un penitenziario. In seguito è diventato un attore professionista. Adesso ha 74 anni e sta in scena con una forza straordinaria.
- Intervista di Andrea Simone
- Si ringrazia Alessandra Paoli
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