Il Teatro Delfino di Milano propone fino al 20 novembre e dal 24 al 27 novembre “Eugene Ionesco: il re muore”. Si tratta di uno spettacolo diretto da Marco Rampoldi che vede protagonisti Grazia Migneco, Nicoletta Ramorino, Luca Bottale, Augusto Di Bono, Donatella Fanfani, Giulia Franzoso, Pino Pirovano e Sergio Romanò. Lo spettacolo è in memoria e in onore di Gianni Mantesi, un attore e doppiatore molto famoso a Milano, scomparso nel settembre 2014.
La tragicomica morte annunciata del re universale non si arrende alla perdita di potere. Il monarca è circondato dall’affetto della seconda moglie e della cameriera. Intorno a lui c’è però anche la cinica freddezza della prima moglie e del medico, portavoce dell’ottusa fiducia nella scienza. Ogni passo e ogni caduta vengono paradossalmente declamati al popolo della guardia.
Teatro.Online ha intervistato Marco Rampoldi, regista dello spettacolo.
“Questo spettacolo è allo stesso tempo una riflessione sulla morte e un inno alla vita, giusto?”
“Sì, assolutamente. E’ chiaro che all’interno c’è una disperazione, però sia nel Re muore che nelle Sedie si sentono il desiderio e la necessità di imparare a leggere la vita anche nei segni più piccoli e più semplici. E’ esemplare a mio avviso la lunga scena che c’è fra il re e la cameriera. Lì sembra che il re per la prima volta esca dal suo ruolo di dominatore e tiranno. Solo lì capisce che la vita è fatta di piccoli segni che hanno un’importanza fondamentale all’interno dell’esistenza di una persona”.
“In che modo in questo spettacolo convivono farsa e dramma?”
“Con dei contrasti molto forti com’è tendenzialmente la vita. Nel senso che si passa con grande rapidità da un sentimento all’altro e da un colore all’altro. Questo chiaramente richiede una grande concentrazione da parte degli attori, in particolare da parte dei protagonisti che si trovano ad affrontare dei monologhi. Con un semplice ‘a capo’ passano da una disperazione assoluta a una speranza a volte disperata e altre volte invece sincera. Oppure, come nel caso delle Sedie, si passa dal riso al pianto nel giro di poche parole. Per cui è un disegno molto preciso di quello che è il nostro stare al mondo”.
“Perché non ci si vuole arrendere alla perdita di potere?”
“Perché probabilmente si è piccoli, perché non si capiscono quali sono i veri valori. Infatti, solamente nel momento in cui il re si spoglia di tutti gli orpelli e di tutte le cose che lo frenano riesce a diventare veramente grande. Però questa è una lezione veramente difficile. Purtroppo noi uomini amiamo il potere. Amiamo essere invidiati e ammirati in modo non sempre lecito. Quindi negli uomini abbiamo strutturato e ritualizzato il gioco di potere, ma è così in tutto il mondo animale. Se una persona ambisce ad arrivare in cima alla piramide, una volta arrivata non vorrebbe più scendere. Penso che faccia parte della nostra natura”.
“E’ un commiato alla vita quello che mettete in scena?”
“No, assolutamente, al contrario. E’ l’idea che la vita continua e che quando il re se ne andrà lui vivrà in tutto quello che rimarrà al mondo. Quando i due anziani delle Sedie se ne andranno, comunque sia, il mondo continuerà a vivere e le persone che loro hanno radunato potranno finalmente sentire quest’oratore che deve finalmente venire a portare la verità. Quindi io penso che sia più una sensazione che la vita continua al di là di quello che è il dato personale.
Non è sicuramente un testo religioso. Ognuno però trova il modo di confrontarcisi. Io credo in un aldilà, quindi penso che sia solamente un cambio di stato. Ma chiunque può dare la propria interpretazione. Non è un testo facile perché tutte le transizioni sono sempre traumatiche. Anche noi nella parte finale del Re muore passiamo da un colore di divertimento a una tragedia. Però è la tragedia che serve a poter passare a un altro livello di esistenza. E’ cioè la necessità di distruggere per poter ricostruire in altro modo”.