Arrampicatore esperto che non teme di uscire in solitaria, Aron Ralston improvvisa un’escursione nel Blue John Canyon, nello Utah. Lascia detto solo quando ritornerà ma non dove è diretto: una leggerezza che si trasforma in un incubo. Mentre scende in un canyon, sceglie un appoggio instabile e si ritrova sul fondo, con il braccio bloccato dal peso di un enorme masso. A nulla vale provare a smuovere la roccia o inciderla con il coltellino multiuso. Presto Aron deve arrendersi all’evidenza: è intrappolato. Quanto può sopravvivere un uomo nel deserto?
Blue John Canyon è in scena a Campo Teatrale a Milano dal 10 al 15 maggio. Lo spettacolo è stato scritto e diretto da Mattia Fabris, che ne è anche l’unico protagonista ed è accompagnato alla chitarra da Massimo Betti.
Quattro domande a Mattia Fabris
Perché Aron decide di non dire dov’è diretto?
E’ stata una terribile leggerezza, una cosa che lui fa sempre. E’ una guida esperta, è stato in posti estremi tantissime altre volte ma in quel caso commette questa leggerezza. Quindi parte senza che nessuno sappia dov’è. Lascia solo un biglietto, però è come se ci fosse scritto sopra “Lombardia”.
Il tuo spettacolo è tratto da una storia vera?
Sì, è una storia vera successa ad Aron Ralston nel 2003. Ne hanno fatto anche un film che si chiama 127 ore.
A che cosa pensa Aron in quelle 127 ore?
Ovviamente a tutto. Inizialmente si dispera perché capisce più o meno immediatamente che le sue possibilità di sopravvivenza sono ridotte al minimo perché ha poca acqua con sé, dato che pensava di stare via solo un giorno. Ha pochissime provviste. Fa due calcoli e capisce che, essendo sabato, i soccorsi sarebbero partiti al più tardi martedì, perché lui non si sarebbe presentato al lavoro. Però, con la riserva di acqua che ha, sa che l’uomo resiste nel deserto al massimo un paio di giorni e quindi avrebbe potuto arrivare fino a lunedì. Capisce dunque che la situazione è disperata e di avere tre ipotesi: o che qualcuno andasse nel canyon a fare un’escursione e chiamasse i soccorsi o spostare il masso o tagliarsi il braccio, ma la terza possibilità è l’ultima che ovviamente contempla. Ha una telecamera con sé, quindi fa una specie di video diario. Ogni giorno si filma e comincia a salutare gli amici e i genitori perché pensa che morirà lì. Fa anche una bellissima analisi sul fatto che lui all’inizio inveisce contro il masso, il canyon e i soccorsi che non arrivano. Contro tutto tranne che contro se stesso. Poi però capisce che è stato lui a cacciarsi in questo guaio e che l’unico vero responsabile di quanto accaduto è lui. Paradossalmente questa consapevolezza lo solleva in qualche modo. Capita anche a noi quando capiamo che siamo i responsabili di quello che succede.
Che tipo di forza riesce a trovare Aron dentro se stesso?
Secondo me la forza dell’istinto di sopravvivenza che prevale e gli dà la capacità di uscire dal canyon tramite una soluzione che non posso rivelare. Riesce ad andarsene dopo cinque giorni in cui attraversa stati allucinatori, dove vede cose che non ci sono e si immagina di volare via dal canyon. Di fatto lo fa ma sono esperienze psichedeliche e allucinatorie.
- Intervista di Andrea Simone
- Si ringrazia Maurizia Leonelli per la collaborazione
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