E’ Ferdinando Bruni ad aprire la stagione del Teatro Filodrammatici di Milano. In scena fino al 30 ottobre con “Il fantasma di Canterville” di Oscar Wilde, l’attore e regista rimane coerente al suo percorso di continuità artistica legato al grande autore britannico.
Una storia horror che non fa mai paura, ma diverte grazie alla presenza di un testo che non perde un colpo. Gli elementi “dark” ci sono tutti: uno spirito di un antico castello inglese tormentato dalla presenza di una famiglia americana; una casa stregata; un passaggio segreto; una prigione sotterranea e uno spettro ululante. Nulla di tutto questo però viene mai preso sul serio, come ci conferma Ferdinando Bruni, che ancora una volta ha messo a disposizione di Oscar Wilde la sua voce potente, profonda e poliedrica.
“E’ giusto definire questo testo una dissacrazione dei cliché legata a elementi paurosi?”
“Assolutamente sì. Wilde fa un lavoro molto raffinato di satira del genere horror e gotico. All’epoca andava molto di moda e metteva a frutto due visioni della vita: quella europea legata alle leggende e quella americana, più positivista e connessa alla vita scientifica”.
“Come si sviluppa la provocazione nel testo di Oscar Wilde?”
“Il tratto dell’autore è ironico e leggero. La sua è una provocazione sorniona. Attraverso una storia divertente, si passa a contenuti legati a due modi contrapposti di vedere la vita. Poi arriva un personaggio molto poetico, perché il testo alla fine fa una virata diversa. Tre quarti dello spettacolo sono però molto ironici, a tratti quasi grotteschi. Sul finale, invece, c’è il rapporto tra il fantasma che diventa un essere dolente e affaticato dalla sua lunga vita e la figura di Virginia, la ragazza della famiglia americana. La provocazione passa attraverso un’ironia sorniona e un’apertura molto poetica sul finale”.
“Il genere gotico, di cui Il Fantasma di Canterville, è una delle opere più rappresentative è destinato a un pubblico di nicchia o può affascinare tutti?”
“Io ho fatto questo lavoro per avere un rapporto molto stretto e intimo con il pubblico. Il Teatro Filodrammatici è come un salotto, dove la distanza tra attori e pubblico è quasi annientata. Ho voluto anche recuperare il piacere del racconto, di un rapporto diretto fra attore e spettatori senza più una mediazione. Qui l’attore diventa narratore e attraverso lo strumento della voce evoca tutti i personaggi della vicenda. Secondo me, questo è anche un modo per riaffermare una cosa molto importante: il teatro è fatto di un testo, di un attore che diventa ‘medium’ con gli spettatori e di un pubblico che ascolta. E’ così che si fa il vero teatro. Tutto il resto è in più e viene dopo”.
“Dopo ‘Salomé’ e ‘Il Fantasma di Canterville’ c’è un’altra opera di Oscar Wilde che le piacerebbe rappresentare?”
“Sarei contentissimo di fare ‘L’importanza di chiamarsi Ernesto’. Perché è la critica a una società che passa attraverso un’ironia leggera e molto graffiante. E’ una macchina teatrale costruita benissimo. Il suo è un meccanismo perfetto che funziona da sempre in modo impeccabile”.