Un incontro tra un commerciante e un compratore “nell’ora che volge al crepuscolo”. Un luogo indefinibile e isolato, dove il buio vince sulla luce e la legge di natura pare l’unica legge possibile. Il venditore fa di tutto per entrare nelle grazie del potenziale cliente, che però non sembra avere bisogno di nulla. Entrambi sembrano cedere all’incontro per pura casualità, ritrovandosi indissolubilmente – e ferocemente – legati.
Nella solitudine dei campi di cotone di Bernard-Marie Koltès è in scena al Teatro i di Milano dal 10 novembre al 4 dicembre con la drammaturgia di Francesca Garolla e la regia di Renzo Martinelli. Ne sono protagonisti Cristian Giammarini e Giuseppe Sartori.
Intervista a Francesca Garolla
Quello che avviene tra i due protagonisti è più un incontro o uno scontro?
Direi che è più un incrocio di sguardi: né un vero incontro né un vero scontro. Viene detto anche nel testo: non si capisce chi abbia incrociato lo sguardo di chi. Eppure, nel momento in cui questi due sguardi entrano in contatto, si crea un legame indescrivibile. Non sembra esserci una vera ragione. Certo, c’è chi vende e c’è chi compra, però qui c’è un compratore che sembra non voler comprare nulla, quindi il meccanismo è molto particolare.
Poi tutto si trasforma in lotta, perché – come credo avvenga in tutte le relazioni – è una questione che ha a che fare con chi ha potere e chi ne ha meno. Questa dinamica però non è statica, continua a cambiare, tanto che – anche se le funzioni rimangono le stesse – questi due personaggi invertono molte volte nel testo i propri ruoli, quelli cioè di chi trascina l’altro da qualche parte. Non la vedo come una battaglia, bensì come una sorta di scambio continuo. Una volta uno vince e l’altro perde, e viceversa.
Che cos’hanno in comune questi due personaggi?
Il bisogno, che però è anche desiderio. Facendo un po’ di distinzione tra questi due stati d’animo, il desiderio di cui parliamo non è riconducibile a un oggetto specifico, né materiale né immateriale.
Perché l’oggetto del desiderio sembra essere il desiderio stesso?
Fondamentalmente perché non viene mai dato un nome all’oggetto del desiderio. Questa è la cosa più interessante. Se noi infatti desideriamo qualcosa e l’otteniamo, subito smettiamo di desiderarlo. Se noi sentiamo un desiderio, possiamo continuare a essere desideranti. E’ la cosa che ci fa rimanere in collegamento col mondo, con il nostro futuro e con l’altro da noi. Nel momento in cui sento di avere una mancanza e quindi desidero qualcosa, quella cosa è una fune a cui rimango attaccato. Se questo desiderio dovesse essere nominato, si chiuderebbe la relazione.
Perché entrambi corrono il rischio di smettere di esistere?
Il concetto alla base di una bellissima parte del testo sostiene che noi entriamo nella sfera dell’altro fin dal primo sguardo ed è lo sguardo dell’altro che ci fa esistere. Infatti noi non esisteremmo se non in relazione all’altro da noi. Non solo noi ci definiamo negli occhi dell’altro, ma ne abbiamo bisogno per sapere di esistere.
- Intervista di Andrea Simone
- Foto in evidenza di Luca Del Pia
- Si ringrazia Maria Gabriella Mansi per la collaborazione