“E’ solo una normale influenza”, “Vedrai che tra una settimana i teatri riaprono”, “Io non mi preoccuperei più di tanto”. Un mese fa quasi tutta l’Italia pronunciava queste frasi. E invece no: se ieri gli italiani minimizzavano, oggi ci troviamo ad affrontare quella che il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha definito l’emergenza più grave dal secondo dopoguerra. Già, gli italiani minimizzavano – come fanno spesso -, forse per sdrammatizzare, a volte addirittura ironizzando. Forse per nascondere una paura che dentro di loro cresceva sempre di più, giorno dopo giorno, lentamente ma inesorabilmente e in modo costante. Nessuno di noi, però, ha la sfera di cristallo. Se è vero che forse all’inizio abbiamo preso il Coronavirus un po’ sottogamba, è altrettanto vero che non ci saremmo mai aspettati un disastro di queste proporzioni.
I danni del Coronavirus
I teatri sono fermi da quattro settimane (scrivo quest’articolo domenica 22 marzo 2020) e il danno economico è ingentissimo. Per darvi un’idea, vi fornisco solo due dati: a Milano e in Lombardia il settore teatrale (contando anche la Scala) lamentava al 4 marzo 2020 perdite per 11,3 milioni di euro. Gaia Calimani, presidente di MTM, il quarto polo teatrale di Milano che comprende il Teatro Leonardo e il Teatro Litta, afferma che solo il primo giorno di blocco, con la cancellazione di dieci titoli, sono stati bruciati 55 mila euro. E fa venire i brividi la storia del Metropolitan di New York, che dopo gli attacchi dell’11 settembre, ha impiegato due anni prima di registrare un sold out. Spero non si arrivi a tanto.
A Milano lavorano circa 300 attori e 100 ballerini che ora sono fermi. Per non parlare delle maestranze coinvolte: macchinisti, tecnici, fonici, maschere, addetti alle biglietterie, uffici stampa. E non dimentichiamoci dei registi e degli scenografi.
Ormai siamo a fine marzo: spero di cuore di sbagliarmi e non vorrei portare rogna, ma ho la sensazione che questa stagione sia ormai andata perduta e che se ne riparli a settembre.
L’importanza del teatro
Questa chiusura non è un fatto grave solo perché il teatro è da sempre un fantastico divulgatore e un veicolo di cultura; ti permette di vivere emozioni e di stare a contatto con gli artisti senza il filtro dello schermo (grande o piccolo che sia). E’ un fatto grave anche perché, fin dai tempi dell’Atene di Pericle, riunisce le persone. A teatro stringi amicizie, ti innamori, ti fidanzi, ti sfidanzi.
Volete un esempio? Eccovi serviti: correva l’anno 1980. Una sera, un signore che allora possedeva una tv privata chiamata Telemilano poi diventata Canale 5, un certo Silvio Berlusconi, decise di andare al Teatro Manzoni di Milano (di sua proprietà). In cartellone c’era Il magnifico cornuto di Frederick Crommelynck, messo in scena dalla compagnia di quel talento immenso che rispondeva al nome di Enrico Maria Salerno. Nel cast recitava anche un’attrice (allora 24enne): Miriam Raffaella Bartolini, meglio nota come Veronica Lario.
Il giovane (all’epoca 44enne) e brillante imprenditore se ne innamorò perdutamente. Ne fu così conquistato che a fine spettacolo volle andare a farle i complimenti in camerino. Lo fece per la bravura interpretativa? Per la bellezza? Per entrambe le cose? Chi lo sa. Fatto sta che tra i due fu amore a prima vista, nonostante i 20 anni d’età che li separavano.
Scusatemi, non ho resistito. Mi sono lasciato andare al gossip, ma ho voluto raccontare – per i più giovani che magari non conoscono questa storia – che a teatro può succedere veramente di tutto. Specialmente a Milano, che vanta il teatro di prosa più importante d’Italia, quel Piccolo Teatro fondato nel 1947 da Giorgio Strehler, Paolo Grassi e dalla moglie Nina Vinchi. Un tempio sacro talmente fiero di se stesso che ogni volta che festeggia un compleanno a cifra tonda ce lo fa sapere in tutti i modi, con iniziative roboanti e in grandi stile.
E poi ci sono gli altri: il Manzoni, il Litta e il Leonardo già citati prima; il Carcano, lo storico Teatro Filodrammatici la cui Accademia ha vantato per moltissimi anni tra i propri insegnanti un mostro sacro come Ernesto Calindri. Ultime ma non meno importanti (almeno io non ci ho mai visto uno spettacolo brutto) tutte quelle strutture situate in periferia come il Pacta, il Delfino, lo spazio Tertulliano, il Martinitt (specializzato nelle commedie), il Teatro Oscar (che con la rassegna Risate da Oscar promossa da Francesco Ruta propone grandi nomi del cabaret come Margherita Antonelli, Flavio Oreglio e Leonardo Manera) e il glorioso Teatro della Cooperativa di Niguarda diretto da Renato Sarti, dove entri e ad accoglierti c’è un ritratto di Lenin.
Un po’ di storia
Nel corso dei secoli Milano ci ha regalato una programmazione che definire variegata è un eufemismo: da Sofocle a William Shakespeare, da Tennessee Williams ad Harold Pinter, da Anton Cechov a Neil Simon, da Samuel Beckett a Eugène Ionesco, da Carlo Goldoni a Luigi Pirandello, fino ad arrivare a ottimi autori contemporanei come Edoardo Erba. E poi ci sono i grandi comici: Claudio Bisio, Giobbe Covatta, Angela Finocchiaro, Lella Costa, Teresa Mannino, Massimiliano Loizzi e chi più ne ha più ne metta.
Non mi si venga a dire che è difficile educare i giovani al teatro perché i biglietti costano troppo. Ormai quasi tutti offrono abbonamenti e prezzi speciali più che accessibili per gli under 18 e gli over 65. Inoltre, più di una persona mi ha detto che il pubblico più educato e silenzioso è proprio quello delle scolaresche: quando sono presenti in sala non vola una mosca.
Tra realismo e ottimismo
Non voglio certo dire che il Coronavirus ha fatto anche cose buone. Sono però sicuro di una cosa: quando i teatri riapriranno, la gente avrà ancora più voglia di andarci di prima. Perché – senza alcuna offesa – al pubblico italiano non piace solo Checco Zalone (che peraltro trovo geniale in alcune sue battute). Per fortuna sa apprezzare anche la cultura classica, quella che ad alcuni (spero siano sempre meno) fa invece esclamare “Che palle!”.
La pazienza è la virtù dei forti, quindi non ci resta che aspettare che i teatri riaprano. Nel frattempo perché non (ri)leggere Un tram che si chiama desiderio, Le Troiane, Il fu Mattia Pascal o Il giardino dei ciliegi? Fatelo a casa, però. Di questi tempi meglio non uscire. Dicono che giri un brutto ceffo di nome Coronavirus.
Andrea Simone