“IL FIGLIO CHE SARÒ”, UN TERRIBILE SCONTRO GENERAZIONALE

Un canto lirico dedicato alla figura del padre, alla sua assenza e alla sua incapacità di dialogare con i più giovani. Giovanni, un uomo di 45 anni, incontra il suo vecchio professore di scuola media per chiedergli aiuto. Come tanti padri, Giovanni ha un grave problema di comunicazione con il figlio: tra loro c’è un muro di silenzio, di mancanza di dialogo, interessi e valori comuni.

L’intervista video ai due protagonisti

Il figlio che sarò è in scena al Teatro Fontana di Milano fino al 24 ottobre. Diretto da Fabrizio Saccomanno, nasce da un progetto di Gianluigi Gherzi e Giuseppe Semeraro, che ne sono anche protagonisti in scena.

Parlano Gianluigi Gherzi e Giuseppe Semeraro

Cosa emerge dal confronto tra i due protagonisti?

Gianluigi Gherzi: Non emerge tanto l’incomunicabilità generale, quanto il fatto che ogni tanto si perda proprio la possibilità di un contatto reale perché ognuno è entrato dentro a un ruolo. Allora il ragazzo, che viene da me e che è stato un mio studente quando aveva 18 anni, mi racconta che con suo figlio va malissimo perché non riescono più né a parlare né a comunicare. Non ci sono più sogni, imprese, passioni né interessi e sembra che sia questa l’incomunicabilità.

Andando avanti, si scopre invece che c’è stata come una rinuncia da parte del padre a un far vivere i sogni che coltivava da adolescente. Si scopre che dietro la cosiddetta incomunicabilità c’è la mancanza di un terreno vibrante di relazione e di un sogno condiviso. Questa è la forza del rapporto tra i due protagonisti. Sono uno di fronte all’altro, ma ognuno si sente costantemente estraneo. Eppure basta scendere da quel piedistallo e da quelle posizioni consolidate per capire che tutto l’universo dei sensi e dei significanti si riapre, come si riapre anche uno spazio per la poesia.

Quanto è doloroso per Giovanni il percorso della memoria che gli fa fare il vecchio professore?

Giuseppe Semeraro: E’ molto doloroso, perché – per come è raffigurato Giovanni dentro a questa parabola – è stato un ragazzo che ha avuto un momento di grande apertura verso l’arte, la cultura e la poesia. Poi, a un certo punto, ha messo tutto da parte e lo ha sepolto, come spesso accade nella vita. Quindi, parlando con il suo professore e ritornando a quei tempi di grande apertura, si rende conto di quanto ha messo da parte una sua metà. E’ doloroso perché capisce che c’è una parte di sé che è stata completamente dimenticata.

Quanto è facile in uno spettacolo come questo il processo di identificazione da parte del pubblico?

Gianluigi Gherzi: Sembra facile, perché chi può dire di non avere conosciuto una difficoltà con il proprio padre o con il proprio figlio? Questo aspetto diventa più difficile ma anche più interessante quando lo spettacolo comincia a scavare dentro a questa vita menzognera, ai rituali che ci portiamo dietro, al livello dell’aridità sociale, agli stereotipi che non sono solo quelli vecchi del padre padrone autoritario e cattivo che vuole comandare e determinare la vita del figlio, ma anche quelli contemporanei del padre democratico, giovane, elegante, brillante e meraviglioso, che però si ritrova di fronte allo stesso buco.

A volte quel livello di recita ci porta fuori dalla realtà di quei rapporti. Identificarsi con l’uno o con l’altro è a tratti facile. Entrare dentro a un discorso di radicale ridiscussione è più difficile ed è la scommessa interessante. Lo spettacolo si chiama Il figlio che sarò perché anche il mestiere di figlio è da reinventare oggi. come lo è il mestiere di padre. Perché quello che noi troviamo nei modelli passati, in questo momento non funziona più.

Perché siamo di fronte a un racconto poetico in forma di dialogo?

Giuseppe Semeraro: Perché tutto il racconto è costellato da tante immagini, come lo è anche la poesia di immagini. Il linguaggio del dialogo non è per niente poetico, anzi, è molto quotidiano. La poesia di questi dialoghi è proprio quella delle immagini che vengono create. Sono momenti dell’adolescenza di questo ragazzo, del ricordo degli attimi passati con il professore ad ascoltare musica jazz e del viaggio che ha fatto con suo padre in Albania. Sono tanti istanti, che metaforicamente ci portano’ in un mondo poetico.

  • Intervista video di Andrea Simone
  • Si ringraziano Martina Parenti e Maddalena Peluso per il supporto professionale