La storia di uno degi artisti più complessi, geniali, eclettici e travagliati di tutti i tempi arriva al Teatro Leonardo di Milano, dove Corrado d’Elia porta in scena dal 9 al 19 maggio Io, Vincent Van Gogh. Uno spettacolo sul grande pittore olandese da lui scritto, diretto e interpretato. Un viaggio nella psiche e nell’arte di Van Gogh, il cui genio artistico non può e non deve lasciare indifferenti.
Intervista a Corrado d’Elia
“Ti sei concentrato su un periodo specifico della vita di Van Gogh oppure racconti la sua intera esistenza?”
“In realtà racconto in un modo molto particolare e molto originale un suo punto di vista interno ed emotivo riguardo alla creatività, alla creazione e alla pittura. Parlo anche del suo problema di avere pochi soldi, una difficoltà comune a molti artisti che hanno sempre fatto fatica a sbarcare il lunario. Affronto inoltre i temi del rapporto con le persone. Sono argomenti che appartengono non solo all’artista ma anche al genio, perché il genio, nel suo essere disadattato e nel suo vivere la realtà in un modo tutto suo, va incontro anche a diffidenze e problemi con la comunità.”
“Quindi hai deciso di mettere l’accento più sul Van Gogh artista dal tuo punto di vista interiore che sul Van Gogh uomo?”
“Assolutamente sì. Poi descrivo anche i rapporti e le tensioni con il fratello, i suoi amori, la sua vita intima all’interno di una scatola meravigliosa: la scenografia di Chiara Salvucci è fatta di luci atte a riprodurre non tanto i quadri di Van Gogh, ma a evocarli attraverso una serie di colori e di effetti particolari. All’interno di questa cornice c’è un racconto intimo e davvero poetico, che si inserisce in una serie di album in cui arrivo e mi inserisco con una parola autentica ed alta. Lo faccio per rispondere a una crisi drammaturgica e della nostra vita in generale.”
“Era un genio incompreso. E se sì fu questa la sua più grande sofferenza?”
“Certo che era un genio incompreso! In tutta la sua vita ha venduto un solo quadro per trenta franchi! Oggi è l’artista più pagato alle aste, ma in vita la gente lo disprezzava, gli sputava addosso, gli tirava pezzi di cibo. Qui però c’è anche un paragone interessante con Beethoven, perché hanno vissuto la stessa cosa: hanno dedicato all’arte tutta la loro vita. In un genio non esiste alcuna differenza tra arte e vita: il genio vive e brucia per l’arte. E’ questo che io cerco di raccontare.”
“La normalità è una strada lastricata.
E’ comoda per camminare, ma non vi cresce nessun fiore.” Questa è una frase dello spettacolo. Significa forse che per lui la parola “normalità” era sinonimo di “banalità?”
“Sicuramente. Anche per me è la stessa cosa. Immagino che non sia così solo per i geni, ma anche per qualunque artista. Bisogna però capire cosa significa la parola “normale”: quando Vincent trova una prostituta, la ama e le dice “Tu sei una persona normale”. Questo ha un senso alto e purissimo, perché tutti i disadattati e tutti i geni ricercano la normalità. E’ anche vero però che quando si pensa alla società, la normalità è qualcosa di omologante al basso e che ti riporta comunque a un livello senza ricerca né grandi pulsioni.
Quando parliamo di normalità, ci riferiamo alla normalizzazione, a una spinta verso il basso, all’identificazione e all’unione di tutti. L’artista invece cerca di uscire dal proprio spirito, perché lo sente dentro di sé, e tenta di raccontare qualcosa di nuovo e di diverso. Van Gogh rappresenta un esempio di quest’attitudine: viene da un paesino sperduto di 100 anime nei Paesi Bass dove non c’è niente, eppure diventa… Van Gogh!”
- Intervista di Andrea Simone
- Si ringrazia Alessandra Paoli per il supporto professionale