GIUSEPPE ISGRÒ, “A ME UN DIO HA CONCESSO DI DIRE QUANTO SOFFRO”

A me un Dio ha concesso di dire quanto soffro è una discesa nel verso. E’ l’occasione per iniziare l’esplorazione dell’opera teatrale che Johann Wolfgang Goethe scrisse poco più che quarantenne, attratto dalla figura di Torquato Tasso, il primo poeta cortigiano, che sotto la custodia e la lusinga del potere, impazzisce a causa dei rapporti di corte e delle strategie finalizzate o interessate dei cortigiani.

A me un Dio ha concesso di dire quanto soffro è in scena al Teatro Linguaggicreativi di Milano dal 1° al 3 ottobre. Tratto dal Torquato Tasso di Goethe, è uno spettacolo ideato e diretto da Giuseppe Isgrò, che ha anche firmato la drammaturgia con Francesca Marianna Consonni. Unico protagonista sulla scena è Daniele Fedeli.

Quattro domande a Giuseppe Isgrò

Quanto e come vi ha influenzato il “Torquato Tasso” di Goethe nella scrittura di questo testo?

Il “Torquato Tasso” di Goethe in realtà è predominante in quanto i versi sono quelli di Goethe tradotti in italiano. In una riduzione, chiaramente, perché il testo è gigantesco. Sono più di cento pagine di un poema drammatico, enorme, che Goethe stesso riduceva quando lo metteva in scena alla corte di Weimar, però noi abbiamo usato le parole di Goethe. Quello che abbiamo maggiormente modificato in fase di regia è il fatto che Daniele Fedeli è l’unico attore in scena e interpreta tutti gli altri personaggi che ruotano intorno all’impazzimento del Tasso attraverso la follia di Tasso, come se fossero tutti nella sua testa. Quindi si sdoppia in quattro personaggi più uno, che è quello centrale, cioè Torquato Tasso il poeta, che sta per impazzire alla corte di Ferrara.

E’ stata la musicalità della parola e del verso di Goethe a colpirvi?

Sì, è stato questo, ma anche la constatazione che un testo, che nella sua scrittura definitiva è del 1790, è di un’universalità che lo rende contemporaneo ad oggi e che tocca dei temi fondanti quali il rapporto dell’artista con il potere e con la follia, la politica della sopraffazione, la politica che in qualche modo uccide e la libera espressione del poeta. Questi temi sono trattati da Goethe in una maniera estremamente cristallina e con delle parole precise.

Goethe era chiamato “maestro del dire essenziale”. E’ un’essenzialità cristallina, classica e bellissima. Quindi ci ha colpito il suono di queste parole ma anche la possibilità di poter usare un linguaggio altissimo, non ermetico, criptico, in un’attualità dove molto spesso anche a teatro il linguaggio è quotidiano, abbassato e corrivo. Qui il linguaggio è altamente poetico, bellissimo. Da parte nostra c’è anche una presa di posizione rispetto alla contemporaneità: quella di prendere un testo antico ma eterno in versi.

Perché Tasso è un uomo in grado di leggere sotto le intenzioni degli altri?

Perché ha quella tipica sensibilità che può sfociare poi in paranoia e follia, che però è la sensibilità dell’artista, che riconosce dalla gestualità e dalla parola dell’altro l’intenzione. Sente oltre la superficie.

C’è una parte importante data dalla musica in questo spettacolo, giusto?

, assolutamente. Sia nell’uso della parola – ovvero su come Daniele e io abbiamo lavorato su come restituire il verso attraverso la sua vocalità – sia nella composizione del suono, dell’architettura sonora di Shari Delorian. Più che musiche sono ambienti sonori molto forti, che rendono l’idea di come la scena e la sala stessa sono una sorta di scatola cranica rimbombante. Quindi non è una soundtrack o un sottofondo o un crescendo, ma è proprio un ambiente, una scala sonante.

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  • Intervista di Andrea Simone
  • Foto in evidenza del sito del Teatro Linguaggicreativi
  • Si ringrazia Simona Calamita per la collaborazione