E’ un connubio ormai ampiamente collaudato quello tra teatro e poesia portato in scena da Ferdinando Bruni, che dal 1991 a oggi ha allestito con grandi successi numerosi spettacoli tratti da testi di Rimbaud, Ginsberg e Salinas. Ed è proprio Allen Ginsberg l’autore che Bruni ha scelto nuovamente per Kaddish, un lamento funebre scritto dal poeta ebreo per la madre Naomi, morta nel 1956 in manicomio. Lo spettacolo è in scena alla Sala Bausch del Teatro Elfo Puccini di Milano fino al 13 novembre, con la regia di Francesco Frongia e la traduzione di Luca Fontana.
La parola a Ferdinando Bruni
“In che modo Ginsberg mette a nudo la propria anima in questo spettacolo di cui sei l’unico interprete?“
“Rifacendolo dopo più di 20 anni, sono veramente rimasto colpito dalla forma di questo poema, che definire poesia è molto riduttivo, perché è molto complesso nella sua costruzione. Da una parte, però, riesce a essere efficace e coinvolgente come un film, e dall’altra solenne come un rito, perché il pensiero che rivolge alla vicenda, ai rapporti con la madre e alla storia del suo arrivo dalla Russia all’America, fino alla morte della madre abbandonata e dimenticata da tutti in un manicomio è molto coinvolgente. Lo struttura in diverse parti quasi narrative, raccontate però con un linguaggio di immagini molto efficaci ed evocative, con un montaggio frenetico, quasi da film. Ispirandosi alla ritualità ebraica per i morti, Ginsberg costruisce momenti più solenni e meditativi di cerimonia, di rito e di rielaborazione del lutto. E’ un testo molto complesso, ma nello stesso tempo molto emotivo e popolare.”
“Traspare – e se sì quanto – il senso di colpa provato da Ginsberg per avere portato la madre in manicomio quando lui aveva solo dodici anni?”
“Più che altro è molto presente un senso di inadeguatezza e di impossibilità a cambiare un destino segnato fin dall’inizio. Ha a che fare con la tragedia e con l’impossibilità di cambiare una realtà dolorosa ma immutabile. Ginsberg ha veramente fatto tutto il possibile perché sua madre non facesse la fine che ha fatto. Purtroppo esistono le situazioni irrimediabili dentro alle quali c’è tutto il dolore di questa vicenda. Non so se sia il caso di parlare di senso di colpa. Ginsberg era molto legato alla filosofia buddhista e in questo Kaddish c’è anche l’idea di lasciar andare il ricordo della madre, di riconsegnarlo a un flusso più grande, meno legato a un dolore rituale ma più universale.”
“Quali sono le ossessioni visionarie della poesia di Ginsberg?”
“Lo spettacolo è nato più di vent’anni fa in occasione della pubblicazione di una nuova traduzione delle poesie di Ginsberg ad opera di Luca Fontana per Il Saggiatore, che aveva pubblicato una raccolta di poesie scelte da Ginsberg due anni prima della sua morte. Sono poesie che attraversano tutta la sua opera. Alla fine lui parla molto di sé in relazione all’America, ma anche al corpo e al sesso. Letta a posteriori, questa raccolta di poesie è una specie di lunghissimo diario-confessione della sua vita. Per cui c’è veramente dentro di tutto: dai tempi d’oro della beat generation all’America degli anni trenta di cui si parla in Kaddish, quella degli immigrati provenienti dalla Russia e dalla Lituania. E’ una scelta fatta da Ginsberg che mette in campo le poesie più significative per lui. E’ la sua storia che attraversa quella degli Stati Uniti: una delle ultime cose che ha scritto è una specie di lettera a Bill Clinton dove gli suggerisce cosa fare nel futuro. Quest’opera attraversa veramente un secolo americano.”
“Per questo spettacolo avete scelto una colonna sonora che spazia da libere variazioni jazz di Charlie Parker, del bebop e della ritualità ebraica. Non poteva esserci terreno più fertile per l’incontro tra musicalità della parola e musica vera e propria?”
“In realtà sono pezzi ispirati a quel mondo, perché la colonna sonora è originale, a parte un’edizione estremamente suggestiva del canto del kaddish della sinagoga di Parigi, la stessa che avremmo usato e che useremo in Angels in America. Le musiche erano allora suonate dal vivo da Massimo Giovara e Stefano Giaccone, con i quali avevamo anche inciso il disco di Kaddish e di Urlo. Quindi abbiamo conservato la colonna sonora originale ispirata al mondo di Charlie Parker, del bebop e della ritualità ebraica, ma che è originale. Non poteva assolutamenti esserci terreno più fertile e chiaramente Ginsberg ha molto presente questo fatto. Fa parte di un mondo che comprende i musicisti che hai citato, ma anche artisti come Jackson Pollock o Mark Rothko. La seconda metà degli anni 50 è un grande momento per la cultura americana.”