Via del Popolo, un tratto di strada di una cittadina del Sud che un tempo brulicava di attività: due bar, tre negozi di generi alimentari, un fabbro, un falegname, un ristorante, un cinema. Due uomini percorrono via del Popolo, un uomo del presente e un uomo del passato. Il primo impiega due minuti per percorrere duecento metri, il secondo trenta minuti. E’ la piccola città italiana a essere cambiata e la società globalizzata.
Via del Popolo, scritto, diretto e interpretato da Saverio La Ruina è in scena fino all’11 dicembre al Teatro Menotti Filippo Perego di Milano.
Quattro domande a Saverio La Ruina
“Via del Popolo” è la rappresentazione di un microcosmo?
Sì. E’ la strada di una cittadina ed è un microcosmo di quando c’era anche la microeconomia, nel senso che era una strada piena di esercizi commerciali, di artigiani, dove c’era il cinema più importante del paese, un ristorante, un macellaio, la merceria, tre negozi di generi alimentari, il fabbro e un fioraio. Man mano che ci siamo globalizzati, è tutto diventato un cimitero di saracinesche abbassate. C’è la sensazione di trovarsi in una strada dove tutta quella vita e quel brulicare di attività si sono spenti. Infatti l’escamotage teatrale è quello di due uomini che attraversano questa strada. Uno ci mette due minuti e cinquanta secondi, l’altro trenta minuti. Come mai questo così tanto e quello così poco?
In tutto questo attraversamento c’è anche una formazione sentimentale, esistenziale, politica e di rapporto con i padri mia personale, che richiama anche un po’ dei fatti privati che possono rispecchiare una certa universalità. Allo stesso tempo ci sono dei momenti più collettivi come il post Sessantotto che viene declinato in una cittadina di provincia, ma dove i temi sono anche cari alle metropoli. Come vengono depauperate le strade di queste piccole cittadine, anche nei quartieri delle grandi città la macroeconomia ha portato comunque la fine di tutta una serie di attività che poi significa anche la fine di un modello sociale, perché tutti questi esercizi commerciali comportavano relazioni continue, quindi lì c’era veramente una comunità su cui noi facciamo una riflessione. Questa comunità virtuale segna solitudini, individualismo e forse la riflessione di ritrovare un modo di ricrearla. E’ comunque importante riflettere sull’assenza di questa comunità.
Chi sono gli appartenenti a questo luogo che è una comunità?
Si parla di questi personaggi che la abitano che sono un ristoratore, un bigliettaio, un proiezionista del cinema, un elettricista e il macellaio che ricordano due figure de Il padrino con Marlon Brando. C’è un gioco con la cinematografia di quell’epoca. Questa persona, che alla fine finisce con il chiamarsi Trenta Minuti, si relaziona con le situazioni che si instaurano percorrendo questa strada.
Che cosa rappresentano quei duecento metri di percorso?
Rappresentano una strada che aveva una vita e che adesso non ce l’ha più. C’è anche un discorso sul tempo, sul modo in cui la percorrenza di quel tratto di strada possa essere di trenta minuti come di due, sul modo in cui si vive il tempo. Se lo si rincorre è una cosa, se lo si trascorre è un’altra. Quindi questi personaggi hanno un rapporto diverso con il tempo gli uni rispetto agli altri e anche quella è un’altra riflessione rispetto ad oggi che forse lo rincorriamo sempre di più invece che trascorrerlo.
Perché “Via del Popolo” è una riflessione sul tempo?
Perché per me è anche un momento in cui rifletto sul tempo. Penso che forse, andando avanti con l’età, il tempo diventa una riflessione più importante, perché si restringe anche il tempo che abbiamo a disposizione.
- Intervista di Andrea Simone
- Si ringrazia Linda Ansalone
- Clicca QUI per iscriverti al canale YouTube di Teatro.Online e vedere tutte le nostre interviste video