“LINGUA DI CANE”: LA DISPERAZIONE DEGLI ULTIMI

E’ la storia dei dannati della terra, di esseri umani senza nome né visibilità, talmente rassegnati da vedere la morte come un appuntamento più che come una fatalità. Uomini e donne che hanno sperato e creduto di volare, ma che alla fine sono precipitati negli abissi marini. Il loro destino prevedeva un cammino che però non è mai nemmeno iniziato. Sono disperati che non hanno più voce per parlare, che ansimano, che chiedono un pezzo di pane, che non meritano né rispetto né una vita né una morte da umani, perché umani non lo sono mai stati.

E’ proprio la loro storia che l’autrice Sabrina Petyx e il regista Giuseppe Cutino vogliono raccontare in Lingua di cane, in scena al Teatro Menotti di Milano fino al 22 aprile. Ne sono protagonisti Franz Cantalupo, Sara D’Angelo, Elisa Di Dio, Noa Di Venti, Mauro Lamantia e Salvatore Galati.

Intervista a Giuseppe Cutino

“Come nasce il titolo dello spettacolo? O meglio: che cos’è la lingua di cane?”

“Lingua di cane” è uno spettacolo che ha come tema la migrazione, che da noi in Sicilia è un fenomeno molto sentito. Cercavamo con Sabrina Petyx un titolo che potesse avere una duplice valenza: che potesse fin dall’inizio riferirsi a un aspetto tipico di questo spettacolo. Quando noi immaginiamo i migranti pensiamo che parlino una lingua diversa dalla nostra e che a noi sembra quasi un’abbaiata. Ecco da dove arriva il titolo “lingua di cane”.

In realtà è anche il nome che viene dato a una sogliola dei fondali del Mediterraneo, è un pesce che si ciba di proteine. Quello che a noi interessava approfondire era la questione dei morti in mare. Abbiamo cercato di trattare l’argomento in un modo più poetico, forse anche più vicino alla nostra “sicilianità”, per presentare un teatro di parola e di movimento che potesse riecheggiare in alcuni momenti un tema terribile come quello della morte.

“E’ giusto dire che qui il tema della migrazione viene trattato sotto la sua luce più universale e ancestrale?”

Noi abbiamo voluto parlare di migrazioni non cercando di raccontare storie che non ci appartenevano, perché il rischio è di speculare sulla sofferenza e sul dolore altrui, descrivendo vicende che paradossalmente potevano sembrare tutte uguali. Abbiamo scavato nel nostro passato, perché l’Italia e soprattutto la Sicilia sono terre di migranti e di migrazioni. Abbiamo voluto parlare di chi viene dimenticato. Siamo abituati ad individuare il problema relativo ai migranti e ai dispersi considerandoli quasi come entità che non nascondono nomi, cognomi, persone ed esseri umani. E’ gente che muore venendo dimenticata ed è come se morisse due volte.

Lo spettacolo ha un piano narrativo che si riferisce ai morti che vanno in paradiso e che ci guardano dall’alto; poi ci sono i morti in mare, come i pesci, che non hanno quasi alcuna dignità. Guardano il mondo dal basso. E’ di questi invisibili e dimenticati che vogliamo parlare e che muoiono due volte perché non avranno la possibilità di essere ricordati nemmeno dai loro cari.

“Le speranze dei protagonisti sono simili a quelle di tutti noi che magari non siamo così disperati come loro?”

Sì, perché a parlare sono fondamentalmente i morti. Infatti l’inizio dello spettacolo, che ha un testo che pone molte domande, è il monologo di un attore che dice di voler guardare il mondo dall’alto e di avere una dignità anche nella morte perché “se tu parti è perché hai un sogno da realizzare”. Tutti loro hanno un sogno che li ha portati a uscire fuori dal loro mondo. Il problema è che non tutti riescono a concretizzarlo.

“Perché non è difficile pensare a queste storie ma è doloroso ammettere la loro esistenza?”

Perché per farlo dovremmo assumerci delle responsabilità e non tutti ce la sentiamo. I primi a interrogarci siamo stati proprio noi chiedendoci che cosa facciamo per i migranti, se abbiamo paura di loro, se ne ospiteremmo uno a casa nostra: ci siamo risposti di no. A parole siamo tutti tolleranti. Il problema è che quando vengono toccati il nostro vicino, la persona che ci sta davanti o la nostra piazza, vengono fuori determinate paure. Allora dobbiamo assumerci una responsabilità e cercare di farli integrare, ma non a parole. Dobbiamo cercare di rendere la vita migliore a loro e a noi. Invece c’è purtroppo una speculazione continua ed è questo il problema più grande.

(intervista e riprese video di Andrea Simone)