Il 25 gennaio arriva al Teatro Leonardo di Milano un testo di Magdalena Barile, finalista al Premio Scenario 2017. Senza Famiglia, diretto da Marco Lorenzi, vede protagonisti Christian Di Filippo, Francesco Gargiulo, Barbara Mazzi, Alba Maria Porto e Angelo Tronca.
Realizzato dalla compagnia Il Mulino di Amleto – vincitrice del Premio della Critica ANCT 2021 – Senza famiglia è uno spettacolo folle e imprevedibile. La mente infatti corre subito a un Natale in casa Cupiello ambientato nel 2000. In scena c’è una famiglia formata da cinque personaggi in relazione tra loro ma anche vittime di conflitti e impossibilità di esprimersi con affetto.

Quattro domande a Marco Lorenzi
Le dinamiche dei rapporti familiari delle cinque persone sono imprevedibili, affascinanti ed esasperate. Il pubblico può avere quindi facilità a identificarsi?
Durante l’evoluzione drammaturgica del testo, il rapporto tra la nonna e la mamma diventa talmente profondo e universale che abbiamo sempre riscontrato un riconoscimento da parte del pubblico. I ruoli hanno un carattere abbastanza grottesco. Il lavoro di sintesi dei cinque caratteri nella famiglia disfunzionale colpisce le reazioni profonde degli spettatori.
Quali sono i valori e i temi più importanti su cui avete messo l’accento?
Il focus è stato quello di declinare il racconto familiare scritto da Magdalena Barile in una forte metafora politica del testo fortemente presente all’interno dello spettacolo, dove la generazione più anziana continua a soffocare la generazione successiva. Abbiamo posto l’attenzione anche su quello che riguarda l’educazione politica nel nostro Paese. Poi ci spostiamo verso un aspetto più intimo.
Ti riferisci al lato dei sentimenti?
Uno dei grandi “invitati” che però ha declinato l’invito è proprio l’amore. L’intera famiglia ne ha un grande bisogno e tutti i suoi componenti lo richiedono a gran voce, ma esso rimane il grande assente e il grande escluso. Basterebbe uno sforzo di comprensione verso l’altro e un tentativo di riconoscimento della sua identità messo in atto con delicatezza e grazia per farlo maturare, crescere e diventare pienamente se stesso. Questo sforzo però non viene compiuto da nessuno: né dalla generazione della nonna né dai genitori; come al solito i figli sono quelli che pagano il prezzo più alto.
Perché questo spettacolo è stato definito una “favola dark”?
Anche se giochiamo con alcuni cliché tipicamente favolistici come quello dell’allegra famigliola e con un linguaggio apparentemente infantile, lo spettacolo e la scrittura sono attraversati da squarci simili alle atmosfere di David Lynch. Nella pièce si vedono palesemente, nel testo sono più velati. Ci sono risvolti molto creepy che noi abbiamo messo potentemente in risalto con un piano di immagini che danno intensità al racconto.
- Intervista di Andrea Simone
- Foto in evidenza di Manuela Giusto
- Si ringrazia Raffaella Ilari
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