Un dolore irrisolto
L’Abramo di Ermanno Bencivenga al Teatro Filodrammatici di Milano è una maschera delirante e grottesca. Dentro di sé è divorato da un conflitto irrisolvibile tra due concezioni della fede. Un tormento figlio di un’analisi irrisolta fra voci diverse, espresse sul palcoscenico sotto forma di concezioni, idee e ideali fomentati da emozioni profonde, intense e a volte estreme.
Adattato e diretto da Teresa Ludovico, presente anche nel cast, lo spettacolo è in cartellone fino a domenica 9 aprile. Ne sono protagonisti Agusto Masiello, Christian Di Domenico, Michele Altamura, Gabriele Paolocà e Domenico Indiveri.
La parola a Teresa Ludovico
“Abramo non presenta soluzioni al suo conflitto interiore. Lascia che sia il pubblico a trovarle?”
Sì. Io penso che il pubblico dovrebbe sempre trovare delle risposte alle domande che gli spettacoli pongono. Quindi anche in un’opera come questa devono essere gli spettatori a trovare una risposta. E’ una bella responsabilità.
“Quali sono le due concezioni della fede che lacerano Abramo?”
Questo spettacolo si interroga sul senso della fede e sull’idea che l’uomo ha del proprio Dio. I viandanti non chiedono una prova dell’uccisione del figlio, non gli domandano un’obbedienza cieca a una fede ottusa. Ad Abramo viene chiesta una messa in discussione. Cosa voleva Dio? Essere contraddetto. Perché un Dio giusto non può chiedere un’ingiustizia. Che razza di Dio sarebbe se volesse farci rinunciare alla nostra dignità, alla libertà e a compiere un gesto così irrazionale? E’ questa la grande questione posta da Bengivenga e che lascia agli spettatori una riflessione su cui interrogarsi.
Come dirà Sara in una battuta: “Dio, se Dio, non può avere bisogno del sangue che facciamo scorrere per lui”. E’ stato Abramo a inventarsi un fantasma dominato come lui dall’ira e dalla vendetta. Quindi dietro la fede si nasconde la rivalità del padre verso il figlio. Abramo non uccide per fede, ma per realizzare il proprio desiderio di onnipotenza.
“Quanto si ripercuote su Sara e Isacco la sua condizione?”
Tanto, perché il male di Abramo contagia tutti. Ognuno, in qualche modo, da vittima innocente diventa carnefice, come Sara e Isacco.
“Senza anticipare troppo, è possibile sperare in una catarsi finale?”
Temo proprio di no perché questo spettacolo è lo specchio del nostro tempo. C’è una scena di disgregazione che io ho voluto costruire: a un certo punto si vede uno spazio interno protetto dalle persiane che consentono agli attori di guardare all’esterno e agli spettatori di spiare attraverso. Questo ci dà la possibilità di entrare nelle pieghe dei personaggi. Allo stesso tempo queste imposte ci consentono sia una visione esterna che interna della storia. Siamo nel sud, nella casa di Abramo, ma siamo anche affacciati sul nostro mondo. Possiamo parlare di catarsi solo nella misura in cui ci assumiamo la responsabilità delle domande che questo spettacolo pone.