SE MASSIMILIANO SPEZIANI NON FA “NESSUN MIRACOLO A MILANO”

Siamo a Milano, in un futuro non molto lontano. Davanti alle rovine di un centro per l’arte contemporanea, Ferdy, un uomo inquieto di mezz’età, intrattiene un gruppo di bambini. Lo fa nell’attesa dell’improbabile ritorno dal cielo, a cavallo di una scopa, di un suo amico e mentore di tanti anni fa: Totò, che si chiama proprio come il protagonista di Miracolo a Milano di Cesare Zavattini e Vittorio De Sica. La storia che però Ferdy racconta, o forse inventa di sana pianta, è completamente diversa da quella del film.

Scritto da Renato Gabrielli durante il lockdown milanese apposta per Massimiliano Speziani, che ne è l’unico protagonista, Nessun miracolo a Milano è in scena in prima nazionale al Teatro della Cooperativa di Milano fino al 1° novembre.

La parola a Massimiliano Speziani

Chi è veramente Ferdy?

Ferdy è un archetipo, il frutto di una scrittura continua sulla carta da parte di Renato Gabrielli e sulla scena dalla mia. E’ un personaggio che sicuramente prende spunto da Ferdydurke di Witold Gombrowicz. Nel tempo è però diventato una specie di rappresentazione del buon cialtrone, di qualcuno che si arrabatta nella propria esistenza, cercando di rispondere come può ai propri interrogativi esistenziali. E’ una specie di personaggio da commedia all’italiana, che forse affonda le proprie radici anche in quelle degli anni sessanta. E’ però uno sviluppo molto contemporaneo, molto vicino a quello che è la nostra realtà.

Siamo quindi davanti a un personaggio che manifesta al pubblico tutta la propria inadeguatezza?

Sì, però più che un personaggio lo definirei una figura. E’ un’inadeguatezza che pone anche delle domande: non è solo cinico o egoista. Vive tutto il dramma e quindi dà vita a risvolti che toccano poi la sensibilità, dove uno si può un po’ rispecchiare. Non è una parodia di costume, ma anche se la sfiora e la accarezza, ci ride sopra. Ha anche una vena malinconica, più sospesa ed inquieta, mai risolta.

Perché siamo di fronte a un problematico e doloroso passaggio del testimone tra due generazioni?

Perché lo siamo sempre, credo. Forse è per il fatto che questa domanda e questa esigenza ci arrivano un po’ all’improvviso, quando ci ritroviamo ad avere un’età o davanti a certe questioni che non ci riguardano più o che ci fanno molto arrabbiare, mentre le nuove generazioni sono prese da altre preoccupazioni che noi non capiamo. Siamo un po’ come su un nastro trasportatore: volenti o nolenti, abbiamo una specie di eredità. Quindi anche dal punto di vista teatrale e umano, è come se noi avessimo un compito da svolgere. Dunque c’è sempre un passaggio drammatico tra le generazioni, non è mai risolto. Il fatto di regalare e trasmettere quello che si è imparato pone sempre interrogativi e domande, anche per avere grandi gioie e soddisfazioni. Come con il teatro, uno ci va sempre per farsi delle domande, per fare un’esperienza e uscirne più pieno di interrogativi che di certezze.

Anche se il titolo “Nessun miracolo a Milano” è abbastanza provocatorio, avete voluto fare in qualche modo un omaggio al famoso film di Zavattini e De Sica?

Sì, certo! Anche perché riguarda la città di Milano e un periodo molto preciso: quello del 1951, quando uscì il film, che rappresenta la rinascita. Zavattini scrisse Totò il buono come un romanzo per ragazzi che anche gli adulti potevano seguire, leggere e ascoltare. Stese poi la sceneggiatura insieme al principe Antonio de Curtis – ovvero Totò -, arrivò De Sica e cambiarono le cose. Inoltre ci sono dentro anche due anime: Zavattini sembra bruciarsi con la questione tra ricchi e poveri, tra il mondo di chi può e di chi non può. Anche nel film e nel romanzo questo aspetto è reso in modo favolistico.

De Sica – sempre insieme a Zavattini perché erano due anime – ne fa un film più speranzoso, quasi una favola. Con il senno di poi, come risuona questa favola? Sembra anche un po’ provocatorio il fatto che questi poveri che vengono sgomberati possano essere portati solo in cielo come unico posto, cavalcando delle scope.

La realtà che stiamo vivendo in questi mesi mette in evidenza in maniera ancora più drammatica questa visione tra chi ha e chi non ha, tra ricchi – molto pochi – e poveri – tanti –. L’ultima questione riguarda il modo di parlare di queste cose senza che la realtà e la cronaca ci schiaccino con il loro impoverimento informativo. Quindi l’utilizzo di una fiaba raccontato dai bambini è forse l’unico modo per cercare di parlare di cose anche importanti, come se sottovalutassimo che i bambini sono dei testimoni dallo sguardo pulito e lucido. Magari non hanno le parole più adatte, né la competenza e la conoscenza, però intuiscono molto bene. Quindi il personaggio si affida a questi adulti bambini, ma nello spettacolo si rivolge a loro con una certa sorta di ambiguità e un bisogno estremo di loro per ricuperare quello sguardo.

  • Intervista di Andrea Simone
  • Si ringrazia Giulia Tatulli per il supporto professionale