Nella storia della Resistenza di Milano ci sono quartieri che occupano un posto particolare, per le loro storie e le persone che li hanno caratterizzati. Uno di questi è Niguarda, che si liberò il 24 aprile 1945, un giorno prima del resto della città. Una zona che fu teatro di uno degli episodi più sanguinosi ed efferati della città: colpita al ventre da una raffica di mitra dei nazisti, moriva Gina Galeotti Bianchi. Il suo nome di battaglia era Lia ed è una delle figure più rappresentative del Gruppo di Difesa della Donna. La donna era incinta di otto mesi. Renato Sarti, in occasione dell’anniversario della Liberazione, riporta in scena la sua storia al Teatro della Cooperativa di Milano il 23 e il 24 aprile, con un testo da lui scritto e diretto: Nome di battaglia Lia, interpretato da Rossana Mola, Marta Marangoni e dallo stesso Renato Sarti.
Intervista a Renato Sarti
“Perché quando si parla della Resistenza a volte vengono dimenticate le storie più apparentemente periferiche?”
Perché il mito dell’uomo partigiano e combattente ha prevalso sempre rispetto ad altre realtà. In questo caso specifico ha surclassato il ruolo femminile all’interno della Resistenza che è stato fondamentale. A Milano c’erano 50.000 aderenti al Gruppo di Difesa della Donna che purtroppo è stato ritenuto inferiore. Invece ha la stessa importanza di quello degli uomini.
“Cos’era il Gruppo di Difesa della Donna?”
Era un’associazione che durante la Resistenza si dava da fare con volantinaggi e staffette. Quando si faceva un attentato, gli uomini come Giovanni Pesce si facevano portare le armi sul luogo dell’attacco dalle donne che arrivavano in bicicletta. Gli passavano l’arma, lui sparava e poi gliela ridava perché era più facile che le donne non venissero controllate. Sugli uomini, invece, si effettuavano controlli minuziosi. Facevano poi un lavoro di organizzazione, di stampa di volantini e di azioni clandestine.
“C’è una frase terribile nello spettacolo che fa venire la pelle d’oca: “Quando nascerà il bambino non ci sarà più il fascismo”. E’ forse la frase che rappresenta meglio la tragedia di quel giorno?
Sì. Gina Galeotti Bianchi quel giorno era insieme a Stellina Vecchio, un’altra dirigente del Gruppo di Difesa della Donna. Arrivarono da piazzale Maciachini all’altezza dell’ospedale di Niguarda e sentirono i rumori che arrivavano dalla Bicocca e dai primi movimenti operai che cercavano di evitare che i nazisti scappassero con i camion. Quando se ne accorsero, Stellina Vecchio propose a Lia di fare il giro dietro all’ospedale perché così sarebbero state più tranquille, ma lei rifiutò dicendo che il coraggio dei comunisti e dei partigiani si vedeva dal fatto di non aggirare il nemico. Quindi fece quella strada e quel percorso che si rivelarono fatali per lei e per il bambino che portava in grembo: arrivò infatti un gruppo di nazisti sulla via della fuga che mitragliò a casaccio perché c’era una barricata improvvisata. Quelle raffiche di mitra colpirono proprio Gina Bianchi.
“E’ uno spettacolo dedicato alle donne della Resistenza e al loro coraggio?”
Sì, cerchiamo soprattutto di portare avanti il loro messaggio per fare in modo che il loro sacrificio serva a qualcosa. La generazione successiva è stata la prima a non avere testimoni diretti, quindi devono basarsi su quello che raccontiamo noi con il cinema, il teatro, la poesia, l’arte e la letteratura. Quindi lo sforzo che noi dobbiamo fare per portare avanti questi messaggi deve essere ancora più grande. Guai se dimenticassimo i valori che caratterizzavano quelli che ci hanno permesso di venire fuori dalla violenza, dalla tortura, dalla dittatura, dalla mancanza di libertà e dalla guerra per conquistare la pace e la democrazia, che sono beni non da poco.