Goljadkin è un personaggio del sottosuolo, drogato di vita, ma sempre più inadatto alle relazioni sociali. Apre la porta – o forse è uno specchio – e gli appare un sosia allucinato e spaventoso, divertente e assurdo, in grado di sconvolgere completamente la sua esistenza. L’allucinazione del doppio produce sogno, smarrimento, ogni visione si sdoppia, ogni esperienza si divide in un gioco di specchi dal grande potenziale teatrale.
Tratto dal romanzo di Fedor Dostoevskij, Il sosia è in scena al Teatro Franco Parenti di Milano fino al 10 aprile. Nato da un progetto di Alberto Oliva, che ha anche firmato la regia, lo spettacolo vede protagonisti Elia Schilton e Fabio Bussotti.
A tu per tu con Alberto Oliva
Perché Goljadkin è un personaggio del sottosuolo?
E’ forse il primo dei personaggi del sottosuolo di Dostoevskij, che aveva solo 24 anni quando ha scritto questo romanzo. Lo è perché entra in contatto con il lato oscuro di se stesso. Si sveglia e sembra già quasi l’uno, nessuno e centomila di Pirandello. Si guarda allo specchio e trova un se stesso che non è quello che si aspettava di trovare, ma è se stesso e questo specchiarsi al mattino risveglia in lui una coscienza di quella parte che non conosceva. Così Pirandello, cinquant’anni dopo, dirà “Uno nessuno e centomila”, mentre Dostoevskij si è fermato a due con Il sosia. Si crea però comunque questa scissione tra me e il “me che di me non conosco”. Il fatto quindi che Goljadkin incontri il suo doppio è ovviamente la prima manifestazione in cui Dostoevskij racconta l’io diviso e dunque l’io che incontra la parte nascosta di sé.
Quali sono le sue difficoltà nelle relazioni sociali?
Lui è un personaggio molto tenero e dolce. E’ il classico impiegato comune, l’uomo ordinario, fa venire in mente il ragionier Fantozzi per prendere una maschera della nostra commedia italiana. E’ un modesto impiegato che – poverino – si trova a un livello in cui non è riuscito a ottenere una promozione che gli avrebbe dato un agio sociale diverso. Si sente scavalcato e perseguitato da gente raccomandata. Lui non riesce a ottenere la raccomandazione ma vorrebbe tantissimo ricevere quella spintarella che gli darebbe l’agio che desidera.
Cerca quindi in tutti i modi di avere un protettore, qualcuno che gli voglia bene e che lo aiuti, si illude di potersi sposare con la figlia di un’eccellenza importante della città. E’ innamorato di Clara, che però ovviamente non lo considera. E’ dunque anche un personaggio che fa tenerezza perché rappresenta la parte frustrata di ciascuno di noi. Questa situazione lo porta a diventare matto e a incontrare un doppio di se stesso vincente, perché alla fine il sosia che ci racconta Dostoevskij è la parte vincente di Goljadkin.
Perché perde il contatto con la realtà?
Perché la realtà non gli piace. A un certo punto è come se fosse un meccanismo di autodifesa per cui si sgancia. Credo che capiti spesso alle persone e alla mente umana: a un certo punto ci si stacca e si comincia a ricamare sulla realtà. Si inizia a interpretare un segnale come se ci fosse un complotto contro di noi e questo si ingigantisce. Goljadkin è poi un solitario, non parla con gli altri, ha difficoltà nelle relazioni, quindi amplifica alcuni aspetti di quello che gli accade e si costruisce una realtà parallela.
A un certo punto riconoscere ciò che è vero e ciò che è apparenza diventa impossibile. E’ come se partisse per la tangente perché il legame si perde. Noi nello spettacolo cerchiamo proprio di accompagnare lo spettatore dentro la testa di Goljadkin e dunque di far sì che anche il pubblico vada in confusione così come il lettore del romanzo di Dostoevskij non sa più dove finisce la realtà e dove inizia l’allucinazione del protagonista.
Come reagisce allo sconvolgimento della sua esistenza?
Va fuori di testa, poverino! Gli appare il sosia. E’ questa la reazione. Nel momento in cui riceve l’ennesimo schiaffone della sua vita, si ritrova da solo sul ponte di Pietroburgo e si trova davanti il sosia. Da quel momento in poi lui è due, è scisso e deve lottare per riappropriarsi di quella parte di sé che vede fuori. Questa è la bellezza e il divertimento del romanzo di Dostoevskij, che divide Goljadkin per riunirlo, ma lo divide soltanto in manicomio. Anche noi nello spettacolo cerchiamo di avvolgere il nostro protagonista che è uno straordinario Elia Schilton in un gioco di specchi che cambiano continuamente lo spazio e all’interno dei meandri in cui non capisce più se sta vedendo se stesso riflesso o l’altro attore.
Chiudo con una battuta che è anche reale: Elia durante le prove stava impazzendo perché con tutti gli specchi che lo circondavano, non capiva più dove stava la scena, dove finiva il palco, dove cominciava il riflesso, dove c’era l’altro attore vestito come lui. A un certo punto abbiamo creato quindi un ambiente di confusione reale per cui stava impazzendo anche lui stesso, per cui si è calato alla grande nel personaggio.
- Intervista di Andrea Simone
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