Nella millenaria storia del teatro, non è nel 2020 la prima volta che le sale sono state chiuse, con il divieto di rappresentare pubblici spettacoli. La peste colpisce come un flagello fin dall’antichità e la reazione dei popoli e dei governi alla sua devastazione ha spesso comportato la scelta, forse dolorosa ma inevitabile, di sospendere ogni occasione di assembramento, prima fra tutte lo spettacolo dal vivo.

Sulla pandemia e sulla peste il regista teatrale Alberto Oliva ha scritto un libro: Il teatro ai tempi della peste – Modelli di rinascita.
La parola ad Alberto Oliva
Di che cosa parla esattamente il tuo libro?
Il libro è nato durante i mesi di marzo/aprile, nei mesi del primo lockdown. E’ nato dal fatto che moltissimi di noi teatranti, quando hanno chiuso i teatri, abbiamo pensato che fosse la prima volta nella storia che i teatri venivano chiusi. Dato che io ho una passione da tanto tempo per la storia del teatro, mi sono detto che non era la prima volta e sono andato a verificare se fosse già successo. Mi sono appassionato a questa ricerca. Ho provato a studiarmi tutte le epidemie della storia – dal 430 a.C con la peste di Atene che ha portato via Pericle e che è arrivata nel mezzo delle grandi tragedie di Sofocle e di Euripide fino ai giorni nostri – per vedere come il teatro ha reagito a tutte le epidemie. Da questo è nato il primo capitolo, che è il più importante e il più corposo del libro.
Poi sono andato avanti a ragionare e a riflettere su quelli che sono i temi legati, partendo dall’attualità di quello che abbiamo vissuto, cioè i problemi legati all’epidemia sul mondo del teatro per arrivare fino a come nel passato questi problemi sono stati risolti. Quindi per esempio la tecnologia. Si è tanto parlato del fatto che in un’epoca in cui i teatri sono chiusi forse possa entrarci la tecnologia e in parte lo sta facendo. Allora ho dedicato tutto un capitolo a questo, ad andare a trovare nella storia gli agganci di quando le nuove tecnologie sono entrate a minacciare di morte il teatro, ma poi il teatro è sempre riuscito a cavarsela.
Perché poi, in sostanza, il sottotitolo del libro è Modelli di rinascita. Perché sono andato a cercare nella storia tutte quelle volte in cui il teatro è stato chiuso o come è stato minacciato e come ha saputo sempre reinventarsi e sopravvivere. Questo è un po’ lo spirito ottimistico con cui ho scritto Il teatro ai tempi della peste.
Qual è la reazione scomposta e irrazionale che abbiamo sperimentato?
Quel panico da apocalisse che ha fatto gridare tutti all’impazzimento generale, le manifestazioni di cui oggi non ci si ricorda più, ma che sono state tante. Oppure quell’hashtag maledetto del #milanononsiferma. Tutta quella situazione di sorpresa, sconcerto, rabbia e frustrazione che si è scatenata a marzo e che a dir la verità sta ricapitando nel mese di novembre. La mancanza di memoria di quello che è accaduto in passato – quando le epidemie erano assolutamente all’ordine del giorno e capitavano a tutte le generazione che vivevano – ci ha completamente disorientati. La reazione è dovuta al fatto di non avere più un obiettivo e di avere tutto cancellato, perché probabilmente abbiamo scoperto la nostra grande fragilità.
Allora io penso davvero che la storia possa essere un modo per riconoscere che non siamo i più sfortunati del mondo, anzi. Possiamo invece fare di necessità virtù. Approfittiamo di questa crisi e di questa mancanza di obiettivi per ritrovarci e ritrovare un senso, magari facendoci aiutare da quello che è successo nel passato.
Vi dico per esempio che William Shakespeare è passato attraverso tre epidemie di peste bubbonica nella sua vita. Tre, non una. Quindi si può. Oppure Cechov: ci sono delle lettere bellissime di Cechov che cito nel libro. Era medico in un piccolo villaggio sperduto della Russia, che durante l’epidemia di colera si lamentava del fatto che non gli mandavano le mascherine. Quindi gli stessi problemi che viviamo noi oggi e che abbiamo vissuto a marzo li ha vissuti Cechov e li ha raccontati. Dunque non siamo così soli. Questo è un po’ il messaggio che vorrei dare.
In che modo il teatro si trasforma e si reinventa dopo la peste e le pandemie?
Ogni caso è stato particolare. Il bello che ho scoperto è che è assolutamente normale che i teatri vengano chiusi quando c’è una pandemia. E’ ovvio che sono uno dei luoghi di assembramento da sempre. C’è un’eccezione bellissima, che è ne La peste di Albert Camus, il romanzo in cui lui dice che durante quell’episodio i teatri non hanno chiuso, ed è molto bello. C’è sempre stata la possibilità di reinventarsi. Una costante di tutte le epidemie è che dopo la grande crisi c’è sempre stata una rifioritura. Si pensi per esempio che la più grande peste del mondo che si ricordi è quella del 1348, quella di Boccaccio, che è durata 40 anni.
Che cos’è successo 40 anni dopo il 1350? E’ arrivato il Rinascimento che è durato due secoli e mezzo. Quindi hanno sofferto per 40 anni, questa peste è durata per 40 anni in tutta l’Europa, ma grazie a questa peste c’è stato il Rinascimento. Quindi tutto quello che stiamo mettendo da parte in termini di cose che dobbiamo rimandare, progetti a cui dobbiamo rinunciare, frustrazioni che accumuliamo, rabbia, tristezza e sconforto saranno le grandi risorse che potremo avere dopo. Bisogna avere pazienza e fiducia. Non bisogna volere tutto subito e soprattutto io credo che si debba approfittare della possibilità di reinventarci, di trovare delle soluzioni alternative.
Quale occasione di rinascita può esserci per il teatro?
Una cosa che io ho scritto nel libro si è interrotta il 27 luglio, quando non c’era ancora un direttore del Piccolo Teatro. Io avevo posto quello come primo elemento che poteva essere l’occasione di una rinascita: la nomina del nuovo direttore del Piccolo. Devo dire che mi è sembrata più un’occasione persa che un’occasione di cui si è approfittato, non per la nomina di Claudio Longhi, che è una personalità di primissimo piano e di grandissimo livello. Basti pensare che lui si era sfilato e il Piccolo ha dovuto rincorrerlo. Si capisce quindi che c’è qualcosa che non va.
L’ingerenza della politica e della contrapposizione tra partiti all’interno dell’arte è sicuramente la prima cosa che possiamo e dobbiamo trasformare e rigenerare. Questo può essere il primo modello di rinascita importante: ritrovare l’equilibrio tra arte, organizzazione e politica. Devono stare ognuna al proprio posto e collaborare insieme. La politica non deve sostituirsi a queste altre cose o viceversa. Bisogna ritrovare un rapporto sano con la politica, che non vuol dire buttarla fuori, perché non avrebbe senso, ma sanificarla. Sanifichiamo la politica anziché sanificare soltanto le nostre mani. Questa potrebbe essere una grande formula per la rinascita.
- Intervista video di Andrea Simone
- Si ringrazia Martina Gulino per il supporto professionale