Flavio Oreglio porta in scena gli aspetti sorprendenti e curiosi di una forma di intrattenimento e di teatro che affonda le sue radici nella Parigi di fine Ottocento, ma che oggi ha perduto il suo senso originale, sottratto da una moltitudine di generi come varietà, avanspettacolo, animazione, vaudeville e burlesque. Tra reading e monologhi, aneddoti divertenti e canzoni, Flavio Oreglio è al Teatro della Cooperativa di Milano in prima nazionale con Alla ricerca del cabaret perduto dal 14 al 19 febbraio.
Intervista a Flavio Oreglio
Come viene raccontata la storia del cabaret?
L’ho ricostruita attraverso alcuni documenti dell’archivio storico italiano da me diretto. Su questa base ho scritto un libro, L’arte ribelle,che ora sta diventando uno spettacolo di un’ora e mezza. E’ una bella sfida perché vale la pena di raccontare questa storia incredibile, affascinante, sorprendente e divertente, che inizia nel 1881.
Il cabaret non è fatto solo di personaggi famosi, ma anche da illustri sconosciuti. Chi sono?
I più celebri sono stati inizialmente Guy De Maupassant e Paul Verlaine. All’origine ci sono Jean Richepin, Maurice Donet e Alphonse Saret, che nessuno conosce ma che hanno scritto cose meravigliose. Questo è però uno stile che non coinvolge i comici, ma i poeti, i letterati, i pittori, i disegnatori satirici e i cantautori. La canzone d’autore nasce infatti nel cabaret. E’ quindi un mondo particolarissimo, fuorviato da un’errata convinzione che lo vede come sinonimo di comicità. Nel cabaret si ride, ma si può far ridere anche senza essere comici. Gaber, per esempio, faceva ridere tantissimo, eppure non era un comico. Poi ci sono altre forme di risata: la satira, l’ironia, l’umorismo, il grottesco, il sarcasmo, il buffo, il ridicolo e lo humor nero.
Possiamo definire il cabaret come il risultato dell’opera di artisti che hanno portato in scena il proprio modo di vedere il mondo?
Sì. La tendenza era proprio quella: ognuno dava la sua idea e la propria ottica. Non dimentichiamoci che tutte le avanguardie del Novecento, come il dadaismo e il futurismo, sono passate attraverso il cabaret. I comici appartengono a un altro mondo: quello del varietà, bellissimo e straordinario, ma diverso.
Vorrei parlare di Milano: ha perso la sua identità di culla del cabaret?
Nella costruzione di questa storia, ho avuto il privilegio, la fortuna e l’opportunità di misurarmi con persone che hanno fatto la storia del cabaret. Sono stati protagonisti inconsapevoli di una vicenda che ha vissuto di humus e di intenzioni. Finché erano le stesse dei padri antichi, sono riusciti a perpetuare la storia. Quando questa si è discostata dal discorso originale, si è trasformata in un errore. La storia del Derby non è monolitica: è fatta di tre step precisi con comici provenienti da ogni parte d’Italia, non solo milanesi: Felice Andreasi arrivava dal Piemonte, Lino Toffolo dal Veneto, Bruno Lauzi dalla Liguria e Bruno Nebbia era romano. Dagli anni Settanta in poi è meglio non parlare di storia del cabaret che finisce nel 1968, ma considerarla sede di dibattito aperto.
- Si ringrazia Giulia Tatulli