PIAZZA FONTANA, UN SILENZIO ASSORDANTE LUNGO 50 ANNI

Una riflessione necessaria 50 anni dopo la più inspiegabile strage di Stato italiana, quella di Piazza Fontana. Il rumore del silenzio è in scena al Teatro della Cooperativa di Milano fino al 15 dicembre per commemorarne il cinquantennale.

Renato Sarti, che ha scritto e diretto lo spettacolo, ne è anche protagonista con Laura Curino, nel ruolo di Licia Rognini, la vedova di Giuseppe Pinelli. Dalle loro voci il pubblico potrà seguire una narrazione fatta di 50 anni di processi, segreti, contraddizioni e depistaggi.

Intervista a Renato Sarti

“Quali sono state tra le tante persone che hai incontrato e i ricordi raccolti nel tuo lungo lavoro di ricerca gli elementi che ti hanno colpito di più?”

Sicuramente Licia Pinelli. Non solo lei, ma tutto quello che ho potuto trarre è stato preziosissimo: dal libro di Piero Scaramucci e Licia Pinelli ai racconti delle figlie Claudia e Silvia; soprattutto Carlo Arnoldi, presidente dell’associazione familiari vittime della strage di Piazza Fontana, insieme a Paolo Silva e Paolo Dendena, figli di due delle vittime. Sono state le persone fondamentali che hanno contribuito alla scrittura del testo. Poi ce ne sono altre non meno importanti, come Saverio Ferrari dell’Osservatorio democratico sulle nuove destre, che sa praticamente tutto; Mauro Decortes, del Circolo Anarchico Ponte della Ghisolfa, e Massimo Varengo, della Federazione Anarchica italiana. E’ fondamentale aggiungere Fortunato Zinni, che era in banca quel giorno: un rappresentante sindacale presente al momento dello scoppio.”

“Vogliamo parlare dell’importante ruolo di Laura Curino e quale indicazioni le hai dato per calarsi al meglio nella parte?”

Le ho dato poche indicazioni. Perché quando lavori con attrici come Laura Curino, Arianna Scommegna, Maddalena Crippa e Giulia Lazzarini, il compito del regista è agevolato. Perché penso che sia l’attore quello che conta: è lui il vero sacerdote che porta la parola e il verbo. Se il sacerdote non ha talento, o un’esperienza come la loro o come quella di molte altre attrici che hanno lavorato con me, è tutto più difficile. E’importante lavorare con Laura Curino, perché ci sono un dibattito, una discussione e una collaborazione sempre sottili. Lei scrive infatti da anni i propri testi, quindi è anche un po’ drammaturga e regista.”

“E’ più giusto definire quel 12 dicembre 1969 una strage o un golpe, secondo te?”

“Calcolando che erano previsti altri attentati, che per fortuna non ebbero lo stesso esito – uno alla Banca commerciale di Milano, tre all’altare della Patria e al Museo dei Risorgimento – possiamo considerare quel giorno il risultato finale di una serie di attacchi. Teniamo conto che in quell’anno ce n’era uno ogni tre giorni, quindi poteva essere calcolato come un autentico complotto. Il risultato voluto era quello della proclamazione dello stato d’emergenza; quindi carri armati, soldati per le strade, annullamento di alcune libertà democratiche, scontri in piazza, bagno di sangue, golpe bianco e guerra civile. Più che un attentato simbolo possiamo considerare la strage di Piazza Fontana la punta di un piano molto più pericoloso e vasto.”

“Vorrei chiudere l’intervista parlando di te. Tu dov’eri quel giorno e che ricordi hai?”

Avevo 17 anni ed ero a Milano da un paio di mesi. Lavoravo come fattorino in una ditta di trasporti marittimi in Corso Magenta che mi aveva assunto un mese prima. Erano le 17.30 o le 18, era già buio e sentivo i commenti sul tram. Appena entrato in ufficio, il principale, un genovese pragmatico di mare, che per tradizione atavica sa cosa vuol dire avere un figlio lontano, mi disse di chiamare subito a casa i miei per tranquillizzarli.

Non avevo ancora capito l’entità dell’esplosione, lui forse aveva sentito la radio, io solo i commenti sul tram: c’era chi parlava di un enorme scoppio, altri di una caldaia o di una bomba. Il numero delle vittime era sconosciuto, però c’erano la Croce Rossa e i pompieri che parlavano di un fatto grave. Io dissi che non era necessario chiamare a casa mia. Lui invece insistette dicendomi: Se ti dico di chiamare, belandi ciama!

Mi rimane il ricordo dei funerali in Piazza del Duomo: i volti, che osservai uno per uno. Sembravano statue, rocce silenti scolpite di granito, con l’occhio vitreo. Mi ricordo la fermezza, la solidità e l’attenzione. Non c’era solo la sofferenza, il tributo e il dolore delle onoranze funebri; su quei volti c’era anche la sensazione che stesse per succedere qualcosa di grave. Anche se in abiti civili, c’era una sorta di esercito di tute blu provenienti da Sesto San Giovanni, dalle fabbriche dell’hinterland milanese e dalla Breda, che presidiava la piazza con un servizio d’ordine rigorosissimo perché avevano paura di un’altra bomba.”

  • Intervista di Andrea Simone
  • Si ringrazia Giulia Tatulli per il supporto professionale