4.48 Psychosis è l’ultimo testo scritto da Sarah Kane, una partitura lirica, una sinfonia sull’amore e sull’assenza di amore attraversato in versione integrale da Elena Arvigo, unica protagonista in scena diretta da Valentina Calvani, che dà voce e corpo a uno dei testi più controversi, assoluti e intimi del teatro contemporaneo mondiale. Lo spettacolo è in scena fino al 27 gennaio al Teatro Out Off di Milano.
Quattro domande ad Elena Arvigo
“Perché questo è uno spettacolo che non aderisce alla forma di teatro convenzionale?”
“Più che lo spettacolo è il testo a non aderire a una forma di teatro convenzionale. Infatti viene detto spesso che è un monologo. In realtà il monologo presuppone che ci siano un personaggio che viene indicato, una trama e una storia. In questo caso non ci sono indicazioni di allestimento da parte dell’autore. Infatti moltissimi registi, tra cui un grandissimo come Thomas Ostermeyer, lo hanno messo in scena con 7-8 attori. Non lo hanno fatto di loro iniziativa, ma hanno semplicemente interpretato il flusso di coscienza come flusso di voci: diverse voci interpretate da diversi personaggi. Quindi in questo sesnso si distacca già da un po’ da quello che è un testo in cui ci sono delle indicazioni da parte dell’autore. Non ci sono atti, non c’è un flusso di coscienza. E’ uno spettacolo fatto da diversi quadri, però ognuno è libero di essere interpretato. Oltretutto è in scena da ben nove anni e alla fine delle serate all’Out Off avremo fatto quasi 200 repliche.”
“Qui non esiste un confine tra realtà e immaginazione, giusto?”
“Esiste, ma più che altro è un confine sempre in definizione. Ci sono varie condizioni che spostano questo confine, quindi è proprio interessante lavorare sul concetto di confine, di qual è, di quando si sposta. E’ come il discorso della metafora. Susan Sontag dice una cosa interessante: attenti a non rendere le malattie delle metafore. Se io dico che ho perso la voce perché non ho più voglia di parlare, fornisco una spiegazione, ma devo stare attenta che non diventi tutto troppo metaforico, perché la vita diventerebbe impossibile. Infatti la protagonista a un certo punto dice che ogni atto è un simbolo il cui peso la schiaccia, perché quando tutto diventa un simbolo, la giornata nella sua praticità diventa quasi insormontabile. 4.48 diventa così il simbolo della notte che non riesce a finire e della giornata che deve iniziare. Non è semplicemente un orario: 4.48 è un’ora come un’altra. Invece in questo caso diventa il simbolo di una sconfitta, perché alle 4.48 il termine della notte è definito; inizia la giornata che ha già il presagio del suo fallimento.”
“Quanto è fragile l’amore che viene raccontato qui?”
“L’amore non è fragile, lo sono le persone. L’amore è la cosa più potente che esista, ma gli uomini sono creature complesse e quindi questa complessità racchiude una grande fragilità. Quando si mettono in gioco dei sentimenti sempre così assoluti, è facile che ci siano una delusione e una sensazione di tradimento continua molto presenti in questo testo: l’ultimo tradimento che si racconta è quello commesso dal medico. Però in realtà è come se ci fossse un punto in cui tutte le cose diventano fatali, che in altre circostanze non sarebbe esistito.. L’essere umano è quasi stanco ogni volta di sperare.”
“Perché il disagio che viene descritto qui nasconde in realtà un desiderio di speranza?”
“Perché il testo finisce con la frase “per favore, aprite le tende”. La speranza è anche quella che si può dare agli altri. E’ la speranza di poter anche ispirare un sentimento di preziosità e di valore della vita.”
- Intervista di Andrea Simone
- Si ringrazia Roberto Traverso per la gentile collaborazione