FILIPPO RENDA, “ALCESTI – UNA DONNA”

La generazione dei figli di fronte a quella dei padri. Figli delusi e isolati da un lato, padri narcisi e distanti dall’altro. Admeto e Ferete, un figlio che vuole prolungare la propria esistenza e un anziano padre che non sacrifica la propria vita per salvare quella del figlio. E poi la figura di Alcesti che uccide il proprio genitore.

Alcesti – una donna, tratto dalla tragedia di Euripide, è in scena al Teatro Litta di Milano dal 18 al 28 novembre. Scritto e diretto da Filippo Renda, presente anche in scena, vede protagonisti Beppe Salmetti, Irene Serini e Luca Oldani.

Parla Filippo Renda

Siamo di fronte a una tragedia che riguarda solo il rapporto padre-figlia o a un contesto più ampio?

Il lavoro drammaturgico che ho fatto riguarda anche il mito di Alcesti e quello degli argonauti. Alcesti arriva in questa città e su questo palcoscenico come assassina del proprio genitore, portandosi addosso un rapporto infranto per sempre e una colpa che desidera espiare. Per i greci, che hanno un rapporto col mito davvero importante, il dramma parte sempre moltissimo tempo prima. E’ complesso raccontarlo ogni volta allo spettatore, perché il pubblico greco conosceva perfettamente la propria storia sacra. Mettere insieme un singolo dramma, invece, non risolve mai la narrazione. Quindi ho cercato di recuperare il mito a livello drammaturgico.

L’inganno in questo spettacolo è fortemente protagonista. In che modo?

Una battuta del coro, in cui si parla del re della città, dice: “Oltre alla superbia ha aggiunto l’inganno”. Da qui traspare la storia di un uomo che sfrutta la propria situazione di potere per non pagare il prezzo delle proprie colpe e per eludere la legge. Approfitta delle amicizie che appoggiano la sua condizione di uomo potente per ingannare lei e soprattutto i cittadini. Se questi vedono la propria figura di riferimento che oltraggia la legge per arroganza e per una sorta di spirito liberale, per loro scoppia il caos.

In che modo hai riadattato questo testo di Euripide?

Fortemente ma con grande rispetto. L’operazione drammaturgica è stata netta: ho eliminato quattro personaggi. Inoltre, la prima scena tra Apollo e Thanatos è del tutto sparita per essere sostituita da un’arringa del coro all’assemblea dei cittadini. Ho recuperato il mito di Alcesti e di Eracle, inserendoli drammaturgicamente nell’intreccio narrativo. Ho cercato di fare tutto quello che ho fatto per rispetto del testo, nel tentativo di andare al succo della vicenda, di eliminare gli orpelli e ogni cosa che potrebbe strizzare l’occhio allo spettatore, concentrandomi invece sul dramma antico. Nonostante Alcesti non sia una tragedia, noi la trattiamo come tale. C’è il rapporto tra un conflitto personale inconciliabile e una relazione pubblica. Tutto quello che avviene in scena succede in pubblico e viene ascoltato in piazza: la regina di questa città muore davanti al proprio popolo. Quindi ho focalizzato la mia attenzione drammaturgica sugli aspetti legati al senso del tragico.

Che cosa accomuna tutti i protagonisti?

La colpa, il rapporto con il fallimento e l’angoscia. Ognuno si macchia del reato determinato da un delitto di sangue: Alcesti ha assassinato il proprio padre, Admeto sta uccidendo la moglie come ha fatto Eracle con i figli e la consorte. Inoltre, la colpa ha per i greci un valore ben diverso rispetto a noi che abbiamo un retaggio cattolico: esula dal desiderio e dalla volonta, ed è materiale. I personaggi non riescono più quindi a dare senso alle proprie vite e cercano una soluzione, che però non esiste, per rimbrigliare la propria vita. L’unica strada è accettare il proprio fallimento. Quello che gli spettatori e i cittadini devono guardare è il modo in cui i protagonisti decidono di ammetterlo.

  • Intervista video di Andrea Simone
  • Si ringrazia Alessandra Paoli per la collaborazione
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