“ROAD MOVIE”: LA STORIA D’AMORE TRA JOEL E SCOTT

Quarta stagione consecutiva per Angelo Di GenioRoad Movie, che torna al Teatro Elfo Puccini di Milano fino al 1° marzo dopo aver vinto il premio Mariangela Melato e una serie di repliche che hanno registrato sempre il tutto esaurito. Sullo sfondo dell’America degli anni novanta, terrorizzata dallo spettro incombente dell’Aids, assistiamo al viaggio coast-to-coast di Joel per raggiungere l’amato Scott. Un viaggio più interiore che fisico, dove si incontrano e scontrano tre elementi spesso legati in modo indissolubile: amore, paura e morte. Ma sarà anche un percorso destinato ad abbattere barriere e pregiudizi. In scena da solo, Di Genio recita magistralmente il testo di Godfrey Hamilton con la regia di Sandro Mabellini e le musiche di Daniele Rotella eseguite dal vivo dal violoncellista e pianista Antony Kevin Montanari.

La parola ad Angelo Di Genio

“Joel vive un’esperienza che lo cambia profondamente. Quanto e come?”

“Joel è un ragazzo di 34 anni che vive a New York. E’ molto preso dal proprio lavoro ed estremamente stressato, tant’è che nello spettacolo il simbolo di New York è il traffico dove lui diventa matto. E’ molto concentrato su se stesso e non riesce ad aprirsi agli altri. A un certo punto, però, decide di fare un viaggio in California. Lì incontra Scott, un ragazzo molto più giovane e diverso da lui, che invece crede nella condivisione e nell’apertura. E’ un tipo più spirituale ma questo non gli impedisce di lasciarsi andare a una notte di baldoria con Joel. Il cambiamento che però Joel deve affrontare è dato dalla sua mancanza di fiducia negli altri, soprattutto perché ha molta paura del male di quel decennio, cioè l’Aids. 

Nel momento in cui si uniscono amore e morte, due temi fondamentali, innamorarsi di una persona che potrebbe morire nel giro di pochi mesi è qualcosa di spaventoso. Invece, a un certo punto, Joel comincia a lasciarsi andare. Quindi sceglie di partire per incontrare di nuovo Scott prima che tutto possa finire. Lungo il suo percorso incontra tantissimi personaggi. 

Molto spesso non è la meta di un viaggio a essere importante, ma il modo in cui ci si arriva e gli incontri che si fanno. Lungo la strada, Joel conosce molte persone, tra cui tante madri che gli raccontano di avere perso i figli. Ascoltando questi racconti, Joel cambia, perché inizia ad ascoltare e a condividere le proprie paure con gli altri”.

“Ne hai accennato poco fa: nello spettacolo c’è un altro protagonista, non in carne e ossa, ma che incute molto timore: l’Aids. Vogliamo approfondire questo aspetto?”

“Gli anni ottanta e novanta hanno decimato intere generazioni, soprattutto di artisti. Le vittime ammontano a una cifra spaventosa: 38 milioni. Credo che non tutti – soprattutto le nuove generazioni – siano consapevoli di quello che ha significato. Invece è fondamentale ricordare il passato per affrontare meglio il presente. Oggi l’Aids fa molta meno paura perché le terapie permettono di affrontare il virus dell’Hiv in maniera assolutamente normale. Si muore ancora, però, perché molti continuano ad avere rapporti non protetti e hanno paura di fare il test. Nella mentalità collettiva non riesce a far breccia il principio che il test dell’Hiv è fondamentale, perché nel caso in cui risulti positivo, è possibile affrontare la vita in modo normalissimo con una terapia. Nel momento in cui però non viene fatto l’esame, il decorso della malattia torna a essere lo stesso degli anni ottanta e novanta: si sta bene, perché l’Aids è una malattia infida che non dà sintomi se non dopo 20-30 anni. Ci si ammala di polmonite o di qualcos’altro, ma le difese immunitarie abbassate dal virus portano alla morte.

Noi raccontiamo una storia che ricordi cosa volesse dire per un ragazzo di quell’epoca veder morire tutti i suoi amici e i suoi ragazzi. E lo ricordiamo per un motivo molto semplice: esortare tutti a fare il test, perché la consapevolezza della propria salute è qualcosa di fondamentale. 

“Questo è finora l’unico spettacolo in cui – a parte la presenza del musicista Antony Kevin Montanari – sei completamente da solo sul palcoscenico. Come ti trovi ad avere i riflettori puntati solo su di te?”

“In questo caso sento da una parte la grandissima responsabilità di dover raccontare la storia di milioni di persone che vivono queste vicende. Devo però farlo davanti a un pubblico che non le conosce. Dall’altra sono molto contento di essere da solo per due motivi: il primo è che posso divertirmi tantissimo recitando i dialoghi di numerosi personaggi che parlano tra loro. Il secondo riguarda il testo, che mi ha colpito profondamente. Le storie delle madri che hanno perso i figli rappresentano qualcosa di veramente esemplare. Sono racconti che viaggiano su una linea tragicomica molto sottile e di facile empatia, almeno per quanto riguarda la mia storia e quella delle persone intorno a me. Sono molto contento di interpretare questo testo utilizzando solo due strumenti, oltre alle luci e alla musica di Antony: il mio corpo e la mia sensibilità. 

Sul palcoscenico avrebbero potuto esserci sei attori, perché i personaggi sono sei, ma lo spettacolo non avrebbe avuto lo stesso valore. Secondo me, se questa storia viene raccontata da un’unica voce e un unico corpo, è più facile che arrivi in maniera diretta.

Joel si lascia “attraversare” da tutti gli altri personaggi e così cresce. Diversamente, il suo percorso sarebbe stato molto più difficile da interpretare. Invece, essendoci un solo attore che riveste diversi ruoli, è più facile mostrare il cambiamento di una persona che all’inizio è arrabbiata col mondo, cui non interessa niente e nessuno perché trova più facile attaccarsi alla paura degli altri e alla propria solitudine. Alla fine, invece, crede molto nella condivisione. Penso che questo sia un percorso che dobbiamo fare”.

“In conclusione del monologo c’è una frase molto bella sulla quale vorrei un tuo commento: E’ una strada accidentata con la fine sempre bene in vista“. 

“E’ proprio così. Quando Scott deve dire in qualche modo a Joel che si sta per ammalare usa queste parole. In quel periodo, nel momento in cui si scopriva di avere quella malattia, non c’era veramente niente da fare. E’ una frase molto bella e vera.  Significa che in un testo come questo che parla di un viaggio è come se la vita fosse un’enorme strada accidentata perché ci sono vari step che conducono sempre verso la fine, cioè la morte che è sempre bene in vista.  Sotto questo aspetto il testo di Godfrey Hamilton e la traduzione di Gian Maria Cervo sono davvero straordinari. Ci permettono infatti di mettere in risalto due aspetti: il primo è il linguaggio un po’ pop che rappresenta gli anni novanta e il secondo sono alcune costruzioni poetiche di grande livello. “The Guardian” lo ha definito un testo monumentale e credo che i suoi giornalisti siano tutt’altro che scemi!”.

(intervista e riprese video di Andrea Simone)