Fronte del porto è uno spettacolo che ci trascina nella Napoli di quasi 40 anni fa: i colori della moda sono sgargianti e la sonorità è quella dei film dell’epoca. Alessandro Gassman dirige un cast di 12 attori straordinari, portando in scena una storia corale dalla forte carica emotiva e sociale, fatta di relazioni intense e rabbiose, e di atmosfere cariche di suspense.
Lo spettacolo, scritto e diretto da Budd Schulberg, tradotto e adattato da Enrico Ianniello, è in scena alla sala Shakespeare del Teatro Elfo Puccini fino al 21 novembre. Nel cast Daniele Russo, Emanuele Maria Basso, Antimo Casertano, Antonio D’Avino, Sergio Del Prete, Francesca De Nicolais, Manuel Severino, Ernesto Lama, Daniele Marino, Biagio Musella, Pierluigi Tortora e Bruno Tràmice.
La parola a Daniele Russo
Vogliamo raccontare un po’ la trama dello spettacolo?
E’ una storia di soprusi e caporalato all’interno del porto di Napoli negli anni Ottanta, dove un clan gestisce il lavoro dei portuali. Chiaramente, per farlo utilizza tutti i metodi possibili e soprattutto illegali allo scopo di ottenerne un vantaggio personale. La storia ruota quindi intorno all’omertà che accompagna i lavoratori costretti a subire queste angherie. Chiunque infatti provi ad alzare la testa viene messo a tacere con modi poco urbani: sia che si tratti di una morte apparente o di un infortunio sul lavoro, si impedisce a queste persone la possibilità di ribellarsi e riscattarsi, finché il mio personaggio – interpretato nel film da Marlon Brando – non riesce a trovare il coraggio di cambiare le cose grazie alla donna che incontra e a un prete simile a molti che oggi prestano il proprio servizio nelle zone più disagiate di tante città.
Perché è stato deciso di ambientare lo spettacolo nella Napoli degli anni Ottanta?
Laddove c’è una veridicità e un possibile riscontro con la realtà, il regista Alessandro Gassman ama molto portare queste grandi storie vicino a noi. Aveva fatto la stessa cosa in “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, ambientato in Italia prima della legge Basaglia. Questo consente una maggiore immediatezza e un maggior riconoscimento del problema di cui si parla da parte del pubblico. In questo senso Napoli offriva la possibilità di trasmettere veridicità, di sfruttare la lingua napoletana a cui il teatro deve tanto.
Alessandro ama molto il napoletano e ormai è cittadino onorario di Napoli. L’ambientazione negli anni Ottanta serve poi a utilizzare un linguaggio scenico più teatrale, visto che anche il napoletano si è corrotto nel tempo: oggi è una lingua più dura, più simile a quella che vediamo in “Gomorra”. Noi invece recitiamo in un napoletano dalla musicalità diversa, che quindi ha anche una comprensibilità e un gusto differenti.
Ambientazione a parte, cosa c’è di diverso rispetto alla versione cinematografica con Marlon Brando?
Il plot è esattamente identico, però l’anima, il sangue e il colore sono diversi. E’ un risultato che si può ottenere solo grazie a Napoli e alla grande diversità tra teatro e cinema. La differenza tra la nostra versione e quella cinematografica di Elia Kazan sta nel linguaggio e nella lingua che utilizziamo.
Dopo “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, questo è il secondo spettacolo in cui vieni diretto da Alessandro Gassman. Quanto ti ha fatto crescere come attore e quali sono gli insegnamenti che ti ha dato?
Alessandro, quando dirige, sembra un collega, nel senso che ha la capacità di arrivare con le idee chiare dal punto di vista registico. Quindi riesce a dedicarsi solo ed esclusivamente agli attori. Avendo fatto con lui solo due personaggi in napoletano, mi ha dato la possibilità di interpretare due caratteri completamente diversi, perché ha un approccio molto franco, onesto e sereno. Prima di essere un regista, Alessandro è un attore che sa cosa chiedere ai propri attori, cosa vuole e come portarli a ottenerlo.
Lavorare con lui mi diverte molto, perché mi ha fatto fare due personaggi fondamentalmente agli antipodi. In “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, ero esuberante, guascone e simpatico, una bomba esplosiva. In “Fronte del porto”, invece, sono un personaggio ottusamente chiuso. Anche un regista con cui non ci si trova bene ci porta però a crescere, perché sapere quello che si deve o non si deve fare in scena fa parte del nostro percorso di crescita.
- Intervista di Andrea Simone
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