Nel 1876 Fedor Dostoevskij scrisse un racconto fantastico, che riesce a parlarci ancora oggi della necessita dell’utopia proprio in un momento in cui il futuro, più che un sogno fantastico, è un incubo distopico. Per Dostoevskij l’uomo deve porsi degli obiettivi positivi, perché la felicità sulla Terra può esistere e cercarla non solo ha senso, ma forse è l’unica cosa che abbia senso fare.
Tratto da Fedor Dostoevskij, Il sogno di un uomo ridicolo è in scena al Teatro Out Off di Milano fino al 20 giugno. Tradotto e adattato drammaturgicamente da Fausto Malcovati e Mario Sala, e diretto da Lorenzo Loris, lo spettacolo vede come unico protagonista Mario Sala.
La parola a Mario Sala
Qual è il vero sogno di quest’uomo ridicolo?
“Il sogno di un uomo ridicolo” è il sogno di un mondo migliore che rimanga a dimensione d’uomo, vivibile per l’uomo e abitabile da lui, ma che sia quel mondo in cui anche lui – che ha avuto delle grosse difficoltà nella propria vita proprio per questo suo essere ridicolo e sentirsi in qualche modo a margine del corpo sociale, additato come qualcuno per qualche ragione non perfettamente integrato nella società dei suoi simili – immagina e sogna un altro mondo, dopo essere arrivato a una decisione molto grave sulla sua vita perché decide che non gli interessa più vivere e che vuole in qualche modo togliersi di mezzo con una pistola.
E’ con la pistola in mano quando fa un sogno che gli rivela una dimensione di vita del tutto inattesa, ma è un sogno così vivido che dal suo punto di vista, quel mondo che lui ha visto con i suoi occhi – sia pure in sogno – può essere realizzato proprio perché lui lo ha visto. Quindi il suo è un sogno utopico e paradisiaco, di una vita possibile in cui ci sia realmente amore, perché poi è questo che lui va predicando. Un amore semplice e naturale, quella dotazione con cui tutti veniamo al mondo e che poi in qualche modo viene corrotta nell’arco della nostra vita.
Perché oggi il futuro più che un sogno fantastico ci appare come un incubo distopico?
Io credo che tutti noi siamo al centro di un mondo mediatico che ci prende di mira costantemente con notizie contradditorie di vario tipo. Noi siamo messi nella condizione – com’è stato dimostrato da questa pandemia che abbiamo attraversato e da cui non siamo ancora completamente usciti – di non avere più dei riferimenti. Non sappiamo più a chi e a cosa si deve credere, a chi ti dice la verità, a chi non te la dice, a chi è tuo amico o a chi non lo è.
E’ come se fossimo oggetto di un esperimento teso a confonderci invece che a semplificarci la vita, a metterci in contatto con i fondamenti del nostro essere naturale, biologico, semplice. Invece tutto questo è ostacolato da una marea di segni e di messaggi di senso opposto con i quali veniamo bombardati. Questo fa sì che alla fine, guardando davanti, noi vediamo la stessa confusione e sentiamo gli stessi timori del nostro presente. Non capiamo perché la cosa potrebbe migliorare e cambiare.
Abbiamo come perso una fede – magari anche in senso religioso – e una fiducia in quello che siamo e che possiamo fare qua e nel nostro modo di poter vivere bene questa vita su questa Terra. Tutto questo non è più semplice come dovrebbe essere quando veniamo al mondo, quando scopriamo le piccole cose e ce ne innamoriamo. Questo non riguarda solo la nostra epoca storica, sicuramente è stato sempre così. Ho l’impressione che la situazione stia in qualche modo peggiorando, nel senso che ormai siamo tutti in contatto, globalizzati. Questo, che dovrebbe essere e per certi versi lo è, una cosa positiva a cui guardare con gioia, fa anche aumentare il nostro disorientamento. Ci fa infatti aprire ancora di più il raggio di questo caos che ci viene buttato giornalmente addosso.
Quant’è sottile il confine tra fantasia, poesia e realtà in quest’opera di Dostoevskij?
E’ un confine in realtà molto sottile, tanto che è quasi inafferrabile. Alla fine è proprio questo il punto. Lui sogna, ma siccome lui vede il mondo e crede a quello che vede, crede che la prova dell’esistere sia data dallo sguardo. Per lui è esistito quello che ha visto e quindi anche il pubblico o chi legge il racconto rimane nel dubbio che davvero sia esistito. Quindi il confine tra fantasia è realtà e minimo e anzi, le due diventano facilmente sovrapponibili.
Che tipo di lavoro avete fatto tu e Fausto Malcovati sul testo originale?
Abbiamo intanto modernizzato il linguaggio. Le traduzioni che esistevano erano belle ma erano molto letterarie. Bisognava rendere il linguaggio il più possibile concreto, aderente a una persona che parla oggi. Dovevamo togliergli letterarietà e quel tanto di “traduttese” che è in tutti i grandi classici, in generali nei testi letterari, e poi anche ridurlo all’osso. Il racconto è infatti molto più lungo. Gli abbiamo dato un ritmo crescente e incalzante. Abbiamo costruito delle frasi che permettessero una costruzione ritmica e incalzante. inserendo anche in parte dei contenuti più vicini a noi, permettendoci anche di ritoccare qua e là, di modo che la pertinenza del testo e del suo messaggio per chi ascolta oggi fosse ancora più rimarcata ed evidente.
- Foto di scena del sito del Teatro Out Off
- Si ringrazia Roberto Traverso per la collaborazione