Renato Sarti, “Muri”

Camicie di forza, sporcizia, ricorso massiccio (a volte letale) a docce fredde, psicofarmaci, pestaggi, elettroshock, lobotomia. Questo era il manicomio prima dell’arrivo di Franco Basaglia: una sorta di lager in cui veniva perpetrata ogni coercizione. Con il suo intervento, il dialogo e il rispetto presero il posto della violenza, rendendo labilissima la precaria distinzione tra la “normalità” del personale preposto alla cura e la “follia” dei ricoverati; fra curanti e pazienti scattava una complicità all’insegna della comprensione e della condivisione dell’umana sofferenza.

Immagini del canale Youtube “teatro della cooperativa”

Muri è in scena al Teatro della Cooperativa di Milano dal 25 al 27 marzo. Scritto e diretto da Renato Sarti, vede come unica protagonista Giulia Lazzarini.

Parla Renato Sarti

Perché la legge Basaglia fu uno spartiacque così fondamentale?

Perché pose un confine netto nei metodi usati in precedenza in psichiatria. Uso una parola di cui solitamente non abuso mai, ma alcuni ospedali psichiatrici erano autentici lager. In quei luoghi la malattia psichica veniva trattata come qualunque altra malattia: come una polmonite, una frattura o una trombosi, con annessa un’attenzione per quello che era l’aspetto sociale. La malattia andava curata considerando le motivazioni delle situazioni di disagio, che molte volte nascevano nell’ambiente sociale per la miseria e la povertà. Erano gli anni Sessanta e Settanta, e l’Italia era un Paese nel boom economico ma il lavoro era micidiale nelle fabbriche per gli orari massacranti. La situazione di molte donne ricoverate all’interno degli ospedali psichiatrici era molto diversa da quella di oggi.

Per scrivere lo spettacolo ti sei basato solo su quello che hai visto a Trieste nel 1972 o hai utilizzato anche altre fonti?

Su quello che ho visto, ma in occasione del trentennale della legge Basaglia sono andato nel 2008 a Trieste e ho raccolto le testimonianze di alcune infermiere che erano donne di popolo senza alcuna preparazione. L’ospedale psichiatrico dipendeva dalla provincia di Trieste che aveva l’obbligo di trovare sistemazioni per situazioni di disagio di persone problematiche come le ragazze madri e gli esuli istriani. Mariuccia Giacomini, l’infermiera che abbiamo intervistato, faceva parte di queste aree ed era stata assunta senza alcun tipo di specializzazione. Dopo ha fatto suo il progetto Basaglia anche da un punto di vista personale, non solo psichiatrico.

Perché quest’infermiera riflette su quello che ha visto con una nostalgia particolare?

Perché era un momento di grandi cambiamenti. E’ stata una rivoluzione anche nei rapporti intimi. Molte donne che finivano nell’ospedale psichiatrico ci entravano perché il marito voleva rubarle la pensione o perché avevano l’amante. I mariti le trattavano male, le donne davano in escandescenze e loro le rinchiudevano. Mariuccia Giacomini, donna di popolo, faceva parte di questa situazione. Ogni giorno faceva incontri su incontri, dibattiti su dibattiti, convegni su convegni e dopo un paio d’anni cominciò a ragionare su se stessa e sulla sua condizione di donna, che non prevede solo il ruolo di madre, di sorella e di donna che fa le pulizie, ma anche quello di individuo. Da qui rivoluzionò completamente la propria vita privata e nacque un’evoluzione anche dal punto di vista linguistico.

Lei veniva da un rione molto popolare, quello di San Sabba sopra la Risiera, dove c’erano le famose donne del pane che parlavano un dialetto considerato il più effervescente e brioso della città. Pian piano lei, frequentando l’ospedale psichiatrico e la sua area, iniziò a parlare un triestino che partiva da una forma popolare ma che in seguito mutava. Nella sua testimonianza usa due o tre volte l’espressione “go acquisito”, che a Trieste non si dice mai, perché il verbo “acquisire” non fa parte del dialetto triestino e lei lo “triestinizza”, come al contrario italianizza alcuni verbi triestini. E’ un percorso di approfondimento che la segna profondamente, quindi cambia tutta la propria vita. Lei dice che tutte le esperienze che ha fatto le ha fatte cosciente del passaggio e della formazione della sua emancipazione.

Perché hai definito la legge Basaglia una conquista di carattere sociale?

Perché Basaglia diceva che per far star meglio il malato, bisognava intervenire economicamente. Quella era la prima condizione, perché il 90% delle persone entrava per alcolismo, droga o situazioni familiari tremende in cui gli elementi comuni erano la disperazione, la fame, la miseria e il lavoro. Teniamo conto che a Trieste, come in tutta l’Italia, come a Sesto San Giovanni, nei circoli intorno alla Breda, alla Falck, alla Magneti Marelli e alla Pirelli, uno andava a lavorare con la paura di lasciarci le penne o di avere un incidente sul lavoro. Quando usciva poteva solo andare in osteria a bere perché l’aveva scampata, perché il lavoro era durissimo e per rilassarsi.

La vita era difficilissima e Basaglia diceva che un terzo dei malati nei manicomi veniva curato, un terzo non guariva e un terzo faceva una fine sconosciuta. L’importante era intervenire all’interno di dove nasceva la malattia: in famiglia o dove queste persone contraevano questo disagio mentale. Lui li chiamava “utenti”, non “matti”. Sicuramente legarli ai letti, pestarli e mandarli a fare la lobotomia non serviva per risolvere i problemi. Bisognava condividere la sofferenza della persona che faceva parte della vita.

  • Intervista di Andrea Simone
  • Si ringrazia Giulia Tatulli per la collaborazione
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