Arianna Scommegna, “Misery”

La vicenda agghiacciante e claustrofobica dello scrittore Paul Sheldon caduto nelle mani della fan Annie Wilkes rivive in teatro, uscito dalla penna di colui che sceneggiò il film e diretto da Filippo Dini.  In scena nei panni dello scrittore Aldo Ottobrino, nel ruolo dell’infermiera disturbata Annie Wilkes, Arianna Scommegna e Carlo Orlando in quello dello sceriffo. Misery, tratto dal romanzo di Stephen King, è in scena fino al 27 novembre al Teatro Menotti Filippo Perego di Milano.

Intervista ad Arianna Scommegna

Perché Annie rappresenta l’incarnazione diabolica dell’amore?

In realtà Annie rappresenta quella parte all’interno del racconto di Stephen King, che scrive questo romanzo parlando in maniera approfondita del suo rapporto con il suo atto creativo con quella fiammella che lo spinge a scrivere. E’ un viaggio introspettivo tra lui e il suo lato legato al suo talento e alla sua pulsione creativa. Quando si ha un talento verso qualcosa, c’è una parte che ci obbliga ad approfondire, ad andare avanti, a non mollare. Lui personifica quindi Annie in una forma molto ossessiva.

Chi raggiunge alti livelli di talento e di successo è obbligato da se stesso a imporsi delle regole e una disciplina. Lui, quindi, essendo un amante dell’horror ed essendo la sua cifra, lo traduce così. Se noi però leggiamo il romanzo di Misery, scopriamo che è proprio un viaggio dell’autore che parla del momento in cui lo scrittore scrive un libro e si approccia alla scrittura. Lui lo fa su Misery, ma questo aspetto può essere trasposto in ogni atto creativo, in ogni bisogno di esprimere e di raccontare le storie. Quindi, più che la forza dell’amore è la personificazione dello spirito creativo dentro un artista.

Perché invece l’autore sembra diventare un moderno Sheherazade che o racconta o muore?

Essendo l’atto creativo la pulsione che spinge a scrivere, Annie è una rappresentazione ossessiva. E’ come se fosse un’ossessione dell’artista, un disperato bisogno di scrivere. E’ come una necessità profonda e disperata dell’autore di esprimere la sua creatività nel suo atto artistico.

Perché “Misery” è un testo senza tempo?

E’ un testo senza tempo nel senso che non lo si può collocare in un preciso periodo storico. Essendo il rapporto fra l’uomo e il suo lato creativo, questo attraversa tutte le società, quindi tutti i tempi. Stephen King lo colloca negli Stati Uniti intorno agli anni Ottanta-Novanta. In realtà non è però collocabile in un preciso periodo storico, potrebbe essere ambientato anche nel 1500, con l’autore con il suo lato creativo che lo ossessiona. In questo senso è un testo senza tempo perché riguarda l’esperienza di un essere umano.

Hai visto l’interpretazione del film che nel 1991 ha valso il premio Oscar a Kathy Bates o hai preferito non farti condizionare?

Certo che l’ho vista! E un sacco di volte! Io adoro Kathy Bates e quel film. Era impossibile non vederlo. E’ chiaro che il teatro ci offre altre possibilità, perché noi non abbiamo la telecamera e i primi piani, quindi è un’altra esperienza quella che fa il teatro rispetto al cinema. La luce che si accende di più nel teatro è proprio quella della relazione, del qui ed ora tra i due protagonisti e lo sceriffo, perché c’è anche la terza figura dello sceriffo che crea quella suspense che aiuta a dare quel lato un po’ thriller della storia.

In realtà, essendo il teatro il luogo per eccellenza dell’umanesimo, indaga a 360 gradi il rapporto spirituale più che la paura che il film horror può fare quando si sta da soli a casa seduti sul proprio divano. A teatro quello che si approfondisce è proprio il rapporto tra i due, tra l’artista e questa figura che è anche personificata in una donna, per cui è una persona in carne e ossa. La mia visione però, condivisa anche dal regista Filippo Dini, da Aldo Ottobrino e Carlo Orlando, gli altri due attori che lavorano con me, è quella di un’indagine profonda e interiore dell’artista.

  • Intervista di Andrea Simone
  • Si ringrazia Linda Ansalone
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