Shi Yang Shi, “Love me tender”

Love me tender racconta la storia di Marco, un ragazzo sensibile, come molti altri. Cresciuto, come tanti, nonostante i buchi di un’infanzia apparentemente ordinaria. Marco vuole essere amato; Marco non riesce ad amarsi; Marco convive con un continuo bisogno di conferme. Ha un disperato bisogno di colmare un amore mai ricevuto.

Love me tender è in scena alla sala Bausch del Teatro Elfo Puccini di Milano dal 12 al 16 giugno. Lo spettacolo è stata scritto da Renata Ciaravino e Shi Yang Shi. La regia è di Marcela Serli.

Intervista a Shi Yang Shi

Chi è veramente Marco?

Marco Hu è un personaggio inventato da Renata Ciaravino e da me, che scopre di avere un problema di dipendenza e cerca di curarsi, ma non posso raccontarti tutto il meccanismo. Posso soltanto dirti che è un bambino che ha sofferto e che diventa grande, ma non ha ancora finito di guardarsi profondamente dentro e non sa come riempire quel buco nero che tutti dobbiamo riempire. Poi lo scopre a sue spese, perché il suo corpo a un certo punto finisce in un baratro di autosfruttamento sessuale. E’ gay, è un ragazzo che avrebbe voluto coronare il suo sogno. Non era nato come personaggio italiano, era sino-italiano. La differenza tra sinoitaliano e italiano è che l’italiano è caucasico, sinoitaliano vuol dire che è di origine cinese.

Come si fa a parlare di dipendenza sessuale mettendola in relazione con la dipendenza affettiva?

E’ facile, perché la dipendenza affettiva è la base di ogni dipendenza. E’ una cosa comune, è il disperato bisogno di un amore incondizionato che non è stato tramandato dalla madre e anche dal padre, ma soprattutto dalla madre. Lo si riempie con la droga del sesso. Parlarne vuol dire avere il coraggio in questo momento storico di toccare l’ipocrisia per sfidarla, per rompere quella patina. Va tutto bene, in nome dei diritti. Il diritto alla salute significa fermarsi e dire che siamo come gli altri. Come comunità LGBTQIA+ abbiamo bisogno sì di più diritti ma anche di più attenzione, di affrontare gli aspetti della stigmatizzazione e parlarne con le persone che soffrono.

Che influenza ha avuto la pandemia su questo tipo di dipendenze?

Fondamentale, perché Renata e io ci siamo ritrovati insieme sul tema di non riuscire a dialogare. Grazie alla collaborazione con un’istituzione di Bolzano e intervistando tante responsabili di questi gruppi, abbiamo capito che ci sono stati grandi stravolgimenti. Adesso queste dipendenze vanno avanti e sono molto diffuse.

Quali sono i tabù che affronta questo spettacolo?

Ce ne sono un paio. Un tabù è quello di toccare il tema della dipendenza sessuale nella comunità in cui gli uomini fanno sesso con gli uomini e all’interno del movimento LGBTQIA+. Un altro tabù è che io oso toccare un tema sfidante per due motivi: il primo è perché non parlo di argomenti tradizionali legati all’integrazione, ma di una cosa specifica come la sessualità. Il secondo è dato dal fatto che io stesso sono gay, quindi metto la mia vulnerabilità di artista di minoranza etnica a toccare un tema universale, che è quello della salute mentale.

  • Intervista di Andrea Simone
  • Foto in evidenza di Max Valle
  • Si ringrazia Antonietta Magli
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